Da alcuni anni anche in Italia si va riscontrando un incremento nei consumi di carne di selvaggina e questo è dovuto anche alla crescita esponenziale degli ungulati selvatici che ha reso necessario lo sviluppo di strategie di gestione delle loro popolazioni e tra queste l’attività venatoria. Anche questo ambito vede l’attuazione di una normativa intesa alla […]
Da alcuni anni anche in Italia si va riscontrando un incremento nei consumi di carne di selvaggina e questo è dovuto anche alla crescita esponenziale degli ungulati selvatici che ha reso necessario lo sviluppo di strategie di gestione delle loro popolazioni e tra queste l’attività venatoria.
Anche questo ambito vede l’attuazione di una normativa intesa alla sicurezza alimentare dei consumatori ed in particolare i Regolamenti europei n. 852 e 853 del 2004 stabiliscono i requisiti igienico-sanitari e le modalità di commercializzazione delle carni di selvaggina, attraverso i controlli effettuati presso i Centri di Lavorazione della Selvaggina (CLS) da parte della competente autorità sanitaria. La carne di selvaggina è una risorsa che va rivalutata sia dal punto di vista qualitativo che nutrizionale, riscoprendo anche tagli poco conosciuti che si prestano alle più svariate utilizzazioni. Le carni degli animali a vita libera hanno indubbiamente peculiarità organolettiche interessanti che vanno dal basso contenuto di grassi all’alto contenuto di acidi grassi Omega-3 dalle note caratteristiche anti-infiammatorie. Inoltre sono una buona fonte di proteine, oligominerali come ferro e zinco ma anche di vitamina B12.
In molte regioni d’Italia la consistente presenza di ungulati selvatici riguarda in particolare cervi, caprioli e cinghiali e questa, quando comporta un eccessivo incremento demografico, può determinare diversi problemi dovuti principalmente alla sinistrosità stradale e ai danni alle colture agricole che in molti casi vengono completamente distrutte. Questa situazione va a determinare ulteriori contrapposizioni tra settori sociali in particolari produttivi e anche per questo l’incremento dell’utilizzo di carne di selvaggina può trovare un valore aggiunto nel momento in cui l’attività venatoria, opportunamente gestita e controllata, può diventare una soluzione per l’attenuazione di tali problemi. Non va poi trascurato il fatto che questo utilizzo rappresenta una scelta sostenibile e a bassissimo impatto ambientale, volta a rivalutare il vero prodotto locale, gestendo al contempo eventuali squilibri dettati dall’incremento della fauna selvatica. Anche sulla base di tutte queste considerazioni è nato un progetto denominato “Selvatici e Buoni” curato dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Milano e la Società Italiana di Medicina Veterinaria Preventiva, ed è realizzato con il sostegno della Fondazione Una Onlus e raccoglie l’adesione di numerose realtà del territorio. Un progetto, che pur consapevole delle difficoltà da affrontare soprattutto di tipo culturale, nasce proprio dall’esigenza di trasformare un problema, quale appunto quello dell’aumento esponenziale degli ungulati selvatici, in una risorsa economica e che anche attraverso la formazione specifica dei cacciatori sia in grado anche di realizzare un modello in grado di certificare la provenienza e qualità delle carni di selvaggina.
Infatti il progetto sulla base di una valutazione che vede un punto qualificante nella sinergia di associazioni venatorie e ambientaliste prevede, tra le altre, la realizzazione di attività di formazione per operatori della filiera di lavorazione e cacciatori per sviluppare conoscenze e competenze per la corretta gestione degli animali cacciati e delle carcasse assicurando quindi la tracciabilità che diventano i punti centrali per garantire, oltre a trasparenza e legalità in questo settore, quella sicurezza alimentare altrimenti difficile da raggiungere finchè l’impiego della carne selvaggina cacciata rimane un settore border line.