“Usura da negazione”, il componente del comitato etico della SIAARTI: «Un medico o un professionista sanitario di fronte ad un paziente che rifiuta una cura, appropriata e potenzialmente utile, prova un’enorme sofferenza. Si genera quello che in inglese viene definito il “moral distress”»
Avrebbe tentato cure “fai da te” a casa, così quando è arrivato in ospedale era già troppo tardi. Aveva 38 anni. Anche Alessandro Mores, un quarantottenne di Thiene, in provincia di Vicenza ha perso la vita per aver detto no alle cure, nonostante le suppliche dei suoi tre figli. In provincia di Salerno, un uomo è addirittura fuggito dall’ospedale pur di non essere sottoposto ai trattamenti. Nelle ore successive è stato soccorso in strada ed ora, intubato, lotta tra la vita e la morte.
Tutti e tre, prima ancora di contrarre il Sars-CoV-2 e rifiutare le cure, avevano detto no anche al vaccino anti-Covid. Di storie come queste o molto simili, i medici e i professionisti sanitari che operano negli ospedali italiani, dal nord al sud della penisola, ne potrebbero raccontare molte altre. Talmente tante che, raccolta l’ennesima segnalazione, la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione Terapia Intensiva (SIAARTI) ha deciso di pubblicare la nota “Pandemia e rifiuto dei trattamenti di supporto vitale”, per richiamare alcuni elementi di carattere generale in materia di consenso alle cure.
«Nel testo – spiega Alberto Giannini componente del comitato etico della SIAARTI – sono citati alcuni elementi di carattere generale riguardanti sia il consenso alle cure, che il relativo percorso decisionale, con preciso riferimento al Codice di Deontologia Medica che sottolinea che “nessun trattamento sanitario può essere imposto a chicchessia, anche se il trattamento diagnostico o terapeutico proposto sia per lui/lei un trattamento salva vita”. Anche sotto il profilo etico, non è possibile ipotizzare condotte differenti».
Che un paziente decida di rifiutare le cure non è una novità, ad essere senza precedenti sono, invece, le motivazioni che spingono a tale decisione: «I casi di rifiuto di trattamenti sono sempre stati piuttosto sporadici – sottolinea Giannini -, legati alla religione professata (come i testimoni di Geova che rifiutano l’emotrasfusione) o correlati a situazioni di malattia terminale, in cui un trattamento (l’ennesimo) può apparire troppo gravoso da sostenere, sia fisicamente che psicologicamente. Ora, nel pieno della pandemia, stiamo osservando e sperimentando qualcosa di completamente diverso: i pazienti no vax rifiutano cure abituali, quei trattamenti che i medici propongono perché ritenuti utili e appropriati, potenzialmente in grado di offrire chance di vita e di salute. La motivazione del rifiuto è ideologica, basata su informazioni distorte, che non considerano alcuna evidenza scientifica».
Per supportare l’irrazionalità di queste opinioni la SIAARTI, nella sua nota, cita alcuni dati emersi da un recente rapporto del Censis (pubblicato a dicembre 2021): «Che oltre il 10% degli italiani ritenga che il Covid non esista e che un terzo sia convito che la vaccinazione proposta per il Covid rappresenti una grande sperimentazione di massa – dice Giannini, citando l’istituto di ricerca socio-economica – dovrebbe spingerci ad un profonda riflessione».
Alla “usura professionale”, che fa da sempre parte della professione medica e che si è aggravata durante i periodi più critici della pandemia a causa del sovraccarico di lavoro, si è aggiunta una “usura da negazione”. «Un medico o qualsiasi professionista sanitario che si trovi di fronte ad un paziente che rifiuta una cura, appropriata e potenzialmente utile, prova un’enorme sofferenza. Chi sceglie questo lavoro, quali che siano le sue caratteristiche personali, lo fa per offrire salute e vita agli altri attraverso un gesto di cura – spiega lo specialista -. Qualsiasi situazione che impedisca questo prendersi cura, che costringa a compiere gesti in contraddizione con le proprie convinzioni più profonde, genera quello che in inglese viene definito il “moral distress”».
Investire sulla corretta informazione è la prima regola universale: «Che si tratti di sanitari, dei media, del mondo della ricerca, ognuno deve fare la sua parte diffondendo notizie chiare, esaustive e scientificamente provate. In particolare, i medici non possono limitarsi a comunicare informazioni di carattere notarile, cioè ad una semplice presa d’atto della volontà del paziente», sottolinea Giannini.
La Società scientifica, infatti, nella sua nota sottolinea che “pur consapevoli delle circostanze (elevato carico di lavoro, tempi decisionali ridotti, forte pressione ambientale, ecc), la relazione con il paziente non può ridursi ad avere le caratteristiche di un atto di tipo meramente burocratico. La tensione per offrire chance di vita e di salute, sempre orientata a valutare con attenzione la proporzionalità delle cure, richiede a tutti noi lo sforzo di spiegare e motivare: per tempo, con la massima attenzione e rispetto, in modo chiaro, veritiero e documentato e, se le circostanze lo consentono, con ragionevole insistenza e in modo ripetuto, l’indicazione e l’utilità dell’impiego di trattamenti di supporto vitale (ivi compresa, se clinicamente appropriata, la ventilazione invasiva)”. «La decisione del paziente va sempre rispettata – sottolinea lo specialista – ma ogni medico dovrebbe ricordarsi che “maneggia materiale delicato”, ovvero la vita dell’altro. E che non basta che un paziente dica una sola volta “no” per lasciarlo morire».
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