Le leggi razziali hanno ostacolato la medicina. Sulla rivista Pathologica sono state pubblicate le storie di chi ha rinunciato alla professione medica
Anche la medicina, e in generale la scienza, ha pagato lo scotto delle leggi razziali, quelle che tra gli anni ’38 e ’44 hanno cambiato e distrutto la vita di molte persine di origine ebraica. Sono infatti numerosissime le ricerche e gli studi clinici che sarebbero stati svolti in Italia se agli anatomopatologi ebrei non fosse stato impedito di esercitare. È questa l’analisi di tre professori italiani, che sulla rivista Pathologica, in occasione della Giornata della Memoria, che si celebra il prossimo giovedì, raccontano le storie di chi, in quegli anni, è stato costretto a rinunciare alla professione medica, accompagnate da un editoriale di Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma.
«Le leggi razziali ebbero un forte impatto sullo sviluppo della ricerca scientifica italiana», afferma Di Segni. «Le discriminazioni colpirono fortemente gli ordini professionali, che dovettero espellere gli ebrei, e le Università, che si videro costrette a licenziare i professori. La loro comunità – continua – era molto presente nel mondo medico, con un grande numero di eccellenze sia nella pratica clinica che nella ricerca. Un esempio sono Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini, premi Nobel di origine ebraica». Aggiunge Mattia Barbareschi, direttore Anatomia e Istologia Patologica dell’Ospedale Santa Chiara di Trento ed editore della rivista Pathologica: «È importante rendere viva questa pagina di storia, per avvicinarsi alla ricorrenza del 27 gennaio ricordando come è iniziato un processo che, come un piano inclinato progressivamente più ripido, ha portato all’abisso».
«Ricordare come le cose ebbero inizio – continua Barbareschi – è molto importante oggi: cogliere i momenti in cui il piano dei diritti si inclina è l’elemento più importante della vita sociale. Negli anni delle leggi razziali i medici ebrei si sono inizialmente trovati costretti a poter curare solo pazienti di origine ebraica, poi hanno dovuto abbandonare la professione. Diversi sono stati costretti a scappare all’estero e altri ancora hanno perso la vita». Oltre che per il dramma umano, l’esclusione dei medici italiani di origine ebraica dalla vita professionale è stata una perdita importante per la comunità medico-scientifica. «Un esempio fu Raffaele Lattes: chirurgo torinese – ricorda Barbareschi – dovette prima smettere di curare chi non era ebreo, poi lasciare il posto nell’università. Si trovò quindi costretto a emigrare negli Stati Uniti, dove iniziò a praticare come anatomopatologo. In breve tempo le sue grandi capacità furono riconosciute e divenne capo del Dipartimento di anatomia patologica della Columbia University. Oggi è ricordato come uno tra degli specialisti più influenti nella storia della disciplina».
«Le deportazioni furono un abominio, ma è necessario ricordare anche tutti i medici che, pur sfuggendo all’olocausto, non poterono più praticare e vennero perciò privati della loro identità professionale», dice Carlo Patriarca, direttore dell’Anatomia Patologica all’Ospedale Sant’Anna di Como. «Per esempio, Ettore Ravenna, che dovette adattarsi a insegnare scienze in una piccola scuola ebraica, o Salomone Franco, che si trasferì nel futuro stato di Israele, dove si faceva spedire i testi scientifici dall’Italia. Erano medici – prosegue – che avrebbero continuato a contribuire allo sviluppo dell’anatomia patologica italiana, se gli fosse stato consentito. Vorrei poi ricordare Giuseppe Jona, anatomopatologo e presidente della comunità ebraica di Venezia. Fu un grande professionista e un filantropo che curava gratuitamente chi non poteva permetterselo. Una notte bruciò le liste degli aderenti alla sinagoga perché la Gestapo non potesse rintracciarli, fece testamento e si tolse la vita. Con questo suo gesto ridusse le conseguenze dei successivi rastrellamenti nel ghetto. Il giorno dopo la sua morte, i gondolieri che aveva spesso assistito sfilarono sui canali in una processione silenziosa, per ricordarlo. Oggi un padiglione dell’ospedale civile della città lagunare è dedicato a lui».
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