Fp Cgil medici e dirigenti SSN, Smi, Simet, Fed. C.i.pe-S.i.s.pe-S.i.n.s.pe proclamano lo stato di agitazione per la medicina generale. Onotri: «La medicina territoriale versa in condizioni disastrose. A noi medici di famiglia affidata l’intera gestione del Covid, clinica e amministrativa. Lavoriamo 12 ore al giorno sette giorni su sette»
L’accordo tra il ministero della Salute e le Regioni sul futuro dei medici di famiglia non ha ancora avuto il via libera finale. Anzi, i sindacati si dicono «costretti a proclamare lo stato di agitazione della categoria». I motivi della protesta? Carichi di lavoro insostenibili aggravati da lunghe procedure amministrative e burocratiche, scarso sostegno dei sistemi sanitari e mancanza di tutele contrattuali.
«In una riunione ministeriale di qualche settimana fa – spiega il Segretario Generale del Sindacato Medici Italiani a Sanità Informazione – ci è stata presentata una bozza di proposta a metà tra le richieste del ministero e quelle delle Regioni. Ci rendiamo conto della necessità di istituire le case di comunità, anche se per noi non risponderanno ai bisogni di prossimità della popolazione, e di presentare una riforma della medicina territoriale perché a questa sono legati i fondi del Pnrr».
In questi giorni, infatti, pur mantenendo il regime convenzionale, si sta discutendo sulla possibile assunzione diretta di personale medico e sanitario per le Case di Comunità. Pur confermando il rapporto di convenzione con il SSN per i medici di famiglia, si richiede loro di effettuare 38 ore di lavoro a settimana, 20 a studio, 6 nelle Case della Comunità e altre 12 nei presidi del Distretto.
Sulla questione, Pina Onotri afferma di «non aver ricevuto alcun atto di indirizzo formale su cui andare ad aprire un nuovo contratto. Abbiamo chiuso quello già scaduto con la promessa che si sarebbe dovuto discutere di un triennio successivo, cosa che ancora non è avvenuta. Il documento che ci è arrivato non è così chiaro, si parla di medici impiegati a quota capitaria all’interno delle case di comunità e su cui non siamo assolutamente d’accordo. Ci siamo resi disponibili, se necessario, ad entrare nelle case di comunità sicuramente non a quota capitaria ma come medici a quota oraria come gli specialisti ambulatoriali. Partiamo dal presupposto che per arrivare al completamento orario di 38 ore settimanali il Ministero e le Regioni partono dall’assunto che lavoriamo 20 ore a settimana e non è così. Per calcolare il nostro debito orario nei confronti di una casa di comunità si dovrebbe partire dal carico assistenziale, dal numero di pazienti presi in carico e non da quello di apertura degli studi. Bisognerebbe osservare quante ore un medico dedica all’attività clinica e burocratica legata alla gestione dei pazienti e, se avanzano ore, prevedere la casa di comunità oppure la possibilità di poter scegliere liberamente di andare a lavorare a quota oraria. Se in regime di dipendenza o di libera professione è un tema importante che andrebbe sviscerato con i sindacati di categoria e con gli iscritti agli stessi. Quando si parla di dipendenza bisogna parlare chiaro: se è accompagnata da tutele perché no, ma bisogna capire cosa si intende e come vogliono gestire la partita. Noi riteniamo che sia il caso di aprire un dibattito all’interno della categoria» aggiunge.
Le maggiori criticità individuate nel documento di Regioni e ministero sono due: «Alla luce dell’emergenza, dei decessi, dell’impennata dei contagi e del superlavoro che stiamo svolgendo in questo momento, chiediamo a gran voce tutele per la categoria dei MMG. E invitiamo a dar seguito all’intero capitolo del Pnrr sulla necessità di promuovere le politiche di pari opportunità e migliori tempi di conciliazione per le donne che lavorano» evidenzia la Onotri. In che stato versa oggi la medicina territoriale? «In condizioni disastrose – continua il Segretario dello Smi – ai medici di famiglia sono state scaricate addosso tutte le incombenze che riguardano i dipartimenti di igiene e sanità pubblica che dopo due anni di pandemia sono carenti di personale medico e amministrativo. A noi è stata affidata l’intera gestione del Covid, non solo la parte chiaramente clinica ma anche amministrativa. Green pass, quarantene, isolamento. Nel Lazio qualche giorno fa c’erano 1200 persone ricoverate negli ospedali e 198mila positivi a casa. Un numero enorme, in gestione ai medici di medicina generale. Una media di 80-90 persone a testa con tutto ciò che ruota attorno a questo, che si tratti di pazienti sintomatici o meno. A questo si aggiunge la grave carenza di medici sul territorio: tre milioni di cittadini sono senza medico di famiglia. Le guardie mediche chiudono, le ambulanze non hanno medici a bordo e noi non riusciamo a fare una sosta dal lavoro. Lavoriamo 12 ore al giorno, 7 giorni su 7».
Lo stato di agitazione è stato indetto il 1° febbraio da Fp Cgil medici e dirigenti SSN Smi, Simet, Fed. C.i. pe-S.i.s.pe-S.i.n.s.pe. Anche lo Snami, il giorno successivo, si è unito alla protesta delle altre sigle sindacali. Tra queste non c’è il maggiore sindacato della categoria, la Fimmg, contrario alla contestazione in epoca di pandemia.
La protesta è necessaria perché, secondo i sindacati, i medici di medicina generale continuano a sopperire alle inefficienze del sistema e a tutte le incombenze burocratiche legate ai pazienti Covid-19. Tamponi, isolamento-quarantena, fine isolamento, vaccini contro il Sars-CoV-2. La contestazione sarà, in una fase iniziale, di tipo burocratico: «No ai certificati, no ai tracciamenti, assicureremo la nostra assistenza ai pazienti in emergenza. I primi a farne le spese perché abbiamo i canali intasati: mail, WhatsApp, linee telefoniche. Tutti chiamano il medico di famiglia e il paziente che sta male trova la linea sempre occupata. E poi ci siamo stancati di essere additati come fannulloni, quando è ciò di più distante dalla realtà» sottolinea la Onotri.
Cosa chiede la categoria? «A gran voce: tutele e diritti, sicurezza sul luogo di lavoro in primis. Tempi di conciliazione normali, diritto di qualsiasi lavoratore. E la chiusura di un accordo che invece di riconoscere il sacrificio della categoria che ha lasciato sul campo 600 morti e tanti ammalati, non solo non recupera dieci anni di inflazione ma finanzia con i soldi dei nostri stipendi le nuove forme aggregative funzionali, le UCCP e le AFT e aumentano le aliquote pensionistiche» rimarca la Onotri. È stato certificato il sorpasso di genere, la professione di medico di medicina generale è ormai femminile. «Ma le donne – spiega allarmata – non riescono a conciliare la famiglia con un ritmo lavorativo tale e una disponibilità telefonica che ci è stata imposta per decreto. Abbiamo diritto alle ferie, al riposo, alle pause. Ci sono colleghi positivi a Covid, alcuni sintomatici e ammalati che continuano a lavorare da casa, a inviare certificati e ricette perché mancano i sostituti».
Il punto di vista dello Smi è chiaro: «Vogliamo lavorare in un sistema pubblico universale equo, accessibile e fruibile a tutti. Non per società di servizi o private accreditate. Vorremmo maggiore chiarezza, se siamo liberi professionisti vogliamo le garanzie della libera professione. Se invece dobbiamo essere dipendenti, ci aspettiamo le tutele legittime. La terza via potrebbe essere una dipendenza atipica, lavorare all’interno del sistema in regime di convenzione con le stesse tutele che troviamo nell’ambito dell’area contrattuale della medicina convenzionata, come la specialistica ambulatoriale. A cui sono riconosciute ferie, Tfr, malattia e maternità. I modelli possono essere diversi, non c’è una verità assoluta. Ma va aperta una consultazione con le organizzazioni di categoria e all’interno degli iscritti. Dobbiamo dar voce al loro disagio, comprendere cosa vogliono e prevedono per il futuro organizzativo».
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