Maurizio Sanguinetti, direttore del Dipartimento di Scienze di Laboratorio e Infettivologiche della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS fa il punto sugli strumenti che abbiamo a disposizione per la diagnosi o lo screening di Covid-19
Tutti ne parlano, ma pochi sanno davvero come funzionano. Nonostante siano passati due anni dall’inizio di questa pandemia, c’è ancora tanta confusione sui test diagnostici e di screening. Meglio il tampone molecolare o quello antigenico? Prima, seconda o terza generazione? Test COI o meglio il salivare? E il Multiplex?
Per fare chiarezza, una volta per tutte, abbiamo chiesto a Maurizio Sanguinetti, direttore del Dipartimento di Scienze di Laboratorio e Infettivologiche della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e docente presso l’Università Cattolica di Roma, di spiegare quali sono le opzioni che abbiamo a disposizione, sfatando anche le numerose fake news che ancora circolano sull’argomento.
«I tamponi molecolari sono lo strumento diagnostico di riferimento per la diagnosi di Covid-19», chiarisce subito Sanguinetti. «Si basano su metodiche di amplificazione genica, la più nota delle quali è la real-time RT-PCR (Reverse Transcription-Polymerase Chain Reaction) e sono considerati il gold standard perché, attraverso l’amplificazione dei geni virali, consentono di rilevare la presenza del genoma virale oltre che in soggetti sintomatici, anche in presenza di bassa carica virale, spesso in pre-sintomatici o asintomatici», aggiunge. Il rischio di falsi negativi è bassissimo e il rischio di falsi positivi quasi nullo, in barba a una diffusa fake news secondo la quale l’Organizzazione mondiale della sanità avrebbe avvertito che i test PCR possono sovrastimare le positività. «Il test amplifica i geni virali solo se ci sono; in assenza di genoma virale, quindi di negatività, il test non rileva nulla», aggiunge.
I test antigenici rapidi, al contrario dei molecolari, cercano gli antigeni che si trovano in genere sulla superficie del virus, come il capside (la copertura proteica del virus) o la proteina Spike ma non il genoma. Sono detti anche «rapidi» perché, a differenza dei molecolari, per la cui analisi ci vogliono fino a 8 ore di tempo tecnico di esecuzione, ma che si possono dilatare per il carico di lavoro fino a 48, in questo caso l’esito si ha dopo 30 minuti o meno. «Si possono eseguire in centri diagnostici ma anche in farmacia o dal medico di medicina generale poiché ne esistono di molto sofisticati ma anche di molto semplici», spiega Sanguinetti. Sappiamo che alcuni, in particolare quelli di prima generazione, possono dare dei falsi negativi, più del 40%. E a volte anche falsi positivi. Ma molto dipende dalla tecnologia che sfruttano. Ce ne sono infatti di diversi tipi.
I test immunocromatografici lateral flow, quelli che solitamente vengono fatti in farmacia, sono di prima generazione. Inizialmente sono stati utilizzati per lo screening, mentre ora in molte regioni sono considerati «ufficialmente validi» per entrare o uscire dalla quarantena. «Tra tutti i test antigenici sono quelli meno affidabili», sottolinea Sanguinetti. Invece, i test a lettura immunofluorescente, considerati di seconda generazione, necessitano dell’uso di una strumentazione e quindi vengono eseguiti nei laboratori. Questa metodica è leggermente più affidabile dei test di prima generazione e aiutano a discriminare meglio un risultato positivo o negativo.
I test con lettura in fluorescenza ma con metodica in microfluidica sono quelli di ultima generazione e sono in genere disponibili in strutture sanitarie o laboratori di analisi e hanno tempi più lunghi. L’affidabilità è di poco inferiore a quella del tampone molecolare. I test COI (Cut Off Index), a differenza dei precedenti che sono qualitativi, si definisce semiquantitativo. «L’unità di misura è chiamata COI: se questo supera quota 10 la positività è pressoché certa e non è necessario fare un test molecolare per la conferma», precisa Sanguinetti. Finora questo test viene utilizzato solo in alcuni laboratori.
Ci sono poi i test salivari. «L’unico affidabile è il test salivare molecolare», sottolinea Sanguinetti. Secondo una circolare del ministero della Salute, possono essere considerati un’opzione per il rilevamento del virus Sars-CoV-2 qualora non sia possibile ottenere tamponi oro/nasofaringei ma vanno utilizzati preferibilmente entro i primi 5 giorni dall’inizio dei sintomi. «L’impiego dei test salivari molecolari richiede un numero più elevato di passaggi che comportano tempistiche più lunghe per il processamento dei campioni», dice Sanguinetti. «Quindi, almeno per il momento, anche se affidabili quanto i tradizionali tamponi molecolari, non possono essere considerati uno strumento diagnostico o di screening di massa», conclude.
«I test fai da te sono in pratica gli stessi che si fanno in farmacia, ma il fatto che non vengono eseguiti da professionisti possono comprometterne l’esito», dice Sanguinetti. Quindi rappresentano un rischio. Un risultato negativo in questo caso è più probabile e rappresenta una falsa certezza. In Italia l’uso è ancora piuttosto limitato. Negli Stati Uniti, invece, sono ampiamente utilizzati. Tanto che, in alcuni periodi, sono diventati praticamente introvabili.
Il test diagnostici cosiddetti Multiplex sono un’evoluzione del classico tampone molecolare che è in grado di distinguere il virus Sars-CoV-2 da quello dell’influenza o dal virus RSV, responsabile della bronchiolite nei bambini. «Un solo tampone molecolare per la ricerca di tre virus è certamente uno strumento straordinario, ma è impensabile credere di poterlo utilizzare su larga scala, sia per i tempi di esecuzione del test che per il costo. Vanno invece benissimo per diagnosi mirate in casi specifici di esecuzione che per le risorse necessarie», conclude Sanguinetti.
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