Mastronuzzi (Bambino Gesù): «Durante lockdown impennata di ricoveri in PS, fondamentale intercettare i sintomi in fase iniziale»
«Quando un bambino si ammala di cancro, si ammala tutta la sua famiglia». Ricorre il 15 febbraio l’International Childhood Cancer Day, la giornata mondiale istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dedicata alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul cancro infantile, e al sostegno ai piccoli pazienti e alle loro famiglie. Quest’anno, il messaggio che accompagna la ricorrenza è “Attraverso le tue mani”. Per porre l’accento sul fatto che la cura di bambini e adolescenti affetti da cancro passa attraverso le mani di medici, infermieri e operatori sanitari, ma anche delle associazioni che ruotano attorno al mondo dell’oncologia pediatrica, un mondo fatto di ricerca clinica e scientifica, di innovazioni in campo terapeutico ma anche di attenzione alle esigenze dei pazienti e delle loro famiglie a 360 gradi. Sul tema, Sanità Informazione ha intervistato la dottoressa Angela Mastronuzzi, responsabile del reparto di Neuro-Oncologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
«I tumori pediatrici sono completamente diversi da quelli che colpiscono l’adulto: sono caratterizzati da alterazioni molecolari e caratteristiche prognostiche e modalità di trattamento a sé. Mentre per i tumori dell’adulti sono noti alcuni fattori di rischio che si associano allo sviluppo di neoplasie questo non vale nel caso dei tumori pediatrici, per i quali l’eziologia non è da ricercare in fattori ambientali bensì genetici, più o meno conosciuti. Per questo motivo non è possibile parlare di vera e propria prevenzione dei tumori pediatrici o meglio, possiamo parlare di prevenzione secondaria laddove si conoscono delle cause genetiche predisponenti ad un rischio aumentato, come la Sindrome di Down, la neurofibromatosi di tipo 1 e altre, oppure le sindromi da predisposizione familiare, sempre più conosciute. Un tempo una diagnosi di tumore era una condanna a morte, sia per gli adulti che per i bambini, oggi invece di tumore si può guarire, a tutte le età. Quando la condizione predisponente è conosciuta, nei bambini possono essere attivati dei programmi di screening con indagini ematochimiche e strumentali, evitando quelle che comportano radiazioni e preferendo quindi metodiche ecografiche o risonanze magnetiche, per intercettare eventuali tumori il più precocemente possibile».
«Le variabili più importante sono rappresentate dalle caratteristiche molecolari delle neoplasie: negli ultimi dieci anni sono stati fatti passi da gigante nel riconoscere le caratteristiche genetiche del tumore che determinano una maggiore o minore aggressività della malattia. Queste sono importantissime nelle classificazioni delle leucemie, così come ci permettono di identificare delle quote di malattia molto piccole, si parla in questo caso di “leucemia residua minima”, visibili tramite metodiche altamente specifiche che ci consentono di monitorare nel tempo l’andamento della patologia e modulare il trattamento. Ci sono poi altri fattori non strettamente legati alla malattia che possono condizionare la prognosi: lo stato economico e sociale delle famiglie può determinare difficoltà ad accedere ai controlli o ai trattamenti adeguati, o predispone il bambino all’insorgenza di infezioni tra un ciclo e l’altro di terapia. Si tratta tuttavia di fattori abbastanza trascurabili in oncologia pediatrica considerando il supporto offerto alle famiglie per garantire la continuità e la sicurezza delle cure».
«Si dice che quando un bambino si ammala di cancro si ammala tutta la sua famiglia: anche i genitori con strumenti economici e culturali più avanzati hanno bisogno di un sostegno costante, perché la malattia del bambino manda in tilt l’intero equilibrio familiare. Spesso i genitori sono costretti a lasciare, temporaneamente o definitivamente, il lavoro per seguire le cure del proprio bambino. Ci sono bambini affetti da forme tumorali con prognosi sfavorevole già alla diagnosi, che noi sappiamo non guariranno. Questi casi soprattutto impongono un tipo di comunicazione adeguata alle famiglie nelle varie fasi, dalla diagnosi al trattamento e al follow up, fino alla fase della terminalità in cui le famiglie ricevono un particolare supporto psicologico, ma anche logistico, sia in ambito ospedaliero sia da parte di tutte le associazioni che ruotano attorno alle oncologie pediatriche».
«Sicuramente nella prima ondata questo impatto c’è stato: la paura di raggiungere gli ospedali o la riduzione delle visite di controllo negli studi dei pediatri, ma anche il fattore della chiusura delle scuole ha giocato un ruolo importante. Io mi occupo di tumori cerebrali, e spesso sono proprio le insegnanti a intercettare in prima battuta qualche cambiamento dal punto di vista cognitivo o della capacità di attenzione che possono essere spia di tumori del sistema nervoso centrale. Proprio nel corso della prima ondata abbiamo pubblicato un articolo sulla rivista Neuroncology, nel quale documentavamo un numero aumentato di pazienti che arrivavano in pronto soccorso in condizioni cliniche impegnative a causa della compressione del tumore all’interno della scatola cranica a fronte, spesse volte, di una patologia di partenza con prognosi favorevole, i cosiddetti tumori benigni. Questo perché talvolta i sintomi iniziali di un tumore cerebrale, indipendentemente dal grado di aggressività, possono sfuggire ad una osservazione quotidiana da parte dei genitori ed essere invece rilevati in altre sedi, come appunto durante i controlli di routine dal pediatra o addirittura nelle aule scolastiche».
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