Lo studio è stato condotto dalla Sbarro Health Research Organization (SHRO), dal Gruppo Italiano Mesotelioma (GIMe) e dal dipartimento di Biotecnologie mediche dell’Università di Siena
Quale è l’efficacia delle terapie di prima linea nella cura del mesotelioma pleurico maligno? La grave forma tumorale maligna che colpisce la pleura (MPM), e che è correlata all’esposizione da amianto, prevede tre terapie di prima linea, messe a punto tra il 2003 e il 2021, sulla cui reale efficacia si è concentrata una ricerca appena pubblicata sulla rivista Jama Open.
Lo studio è stato condotto dalla Sbarro Health Research Organization (SHRO), dal Gruppo Italiano Mesotelioma (GIMe) e dal dipartimento di Biotecnologie mediche dell’Università di Siena. La raccolta ed analisi dei dati sulla sopravvivenza dei pazienti affetti da questa patologia ha coinvolto, inoltre, un gruppo internazionale multidisciplinare di scienziati di diverse istituzioni negli Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Italia e Israele. Questo team ha condotto una rigorosa revisione dei tre studi clinici sui cui risultati sono state approvate le terapie di prima linea: MPS (2003), MAPS (2016) e CM743 (2021) che testano rispettivamente le combinazioni di farmaci cisplatino/pemetrexed, cisplatino/pemetrexed/bevacizumab, e Ipilimumab/Nivolumab.
«Quello che abbiamo dimostrato – spiega il Prof Luciano Mutti, presidente del GIMe, nonché collaboratore dello SHRO e professore a contratto presso la Temple Università di Philadelphia – è che per tutti e tre gli studi analizzati non ci sono evidenze sufficienti per far ritenere che queste tre terapie siano realmente in grado di migliorare la sopravvivenza dei pazienti con MPM. I biostatistici in Israele che hanno analizzato i dati – continua Mutti – hanno ricostruito le curve di sopravvivenza dei tre studi e applicato un’analisi approfondita di tutti i risultati. Questo ha fatto emergere che la sopravvivenza con l’ultima terapia proposta per questa neoplasia (immunoterapia con Ipilimumab/nivolumab) si sovrappone perfettamente ad una di quelle ottenute con precedenti terapie già utilizzate come platino/pemetrexed/bevacizumab».
Nello studio si sottolinea quindi come ogni nuova terapia proposta per il mesotelioma dovrebbe essere comparata con la combinazione ritenuta finora più efficace, ovvero la terapia che include il farmaco bevacizumab associato con chemioterapia anziché la sola chemioterapia.
A sua volta la ricostruzione delle curve di sopravvivenza ottenute con chemioterapia associata a bevacizumab non ha fornito alcuna evidenza di maggiori benefici rispetto alla sola chemioterapia e questo getta un ‘ulteriore ombra sull’efficacia di tutte e tre le terapie proposte.
«Le sperimentazioni cliniche sono condotte in condizioni artificiali, che raramente corrispondono a ciò che accade nel mondo reale – afferma il professor Antonio Giordano, ordinario di Anatomia patologica presso il dipartimento di Biotecnologie mediche dell’Ateneo senese, presidente dello SHRO e docente alla Temple University – il tipo di pazienti selezionati è spesso in condizioni cliniche significativamente migliori, quindi con miglior prognosi anche senza terapia, rispetto ai pazienti che si trovano nella realtà».
Nella ricerca appena pubblicata è stata anche considerata la “fragilità” dei risultati sulla sopravvivenza. È emerso, infatti, che nei tre studi sui quali si basano le attuali terapie per il mesotelioma lo spostamento anche di una piccolissima percentuale di pazienti da un braccio all’altro di ciascuno studio determina la perdita di significatività statistica dei dati sulla sopravvivenza dei pazienti trattati con il nuovo farmaco rispetto ai pazienti trattati con i farmaci di controllo,
Analogo negativo effetto sull’affidabilità dei trials analizzati deriva dal numero dei pazienti arbitrariamente esclusi dagli sperimentatori nell’analisi finale dei risultati, definita “censura“. In particolare, il numero dei casi “censurati” nello studio che testato l’efficacia di Ipilimumab e Niivolumab è davvero troppo elevato e tale da determinare un’ulteriore punto critico di debolezza dei risultati ottenuti
«La nostra analisi – continuano Giordano e Mutti – affronta questioni chiave in oncologia clinica: in primis quanto dobbiamo fidarci dei risultati di grandi studi clinici sponsorizzati? Quando il beneficio ottenuto è reale? Quanto è rilevante il cattivo disegno di questi studi (ad esempio nella scelta del braccio di controllo o nella selezione dei pazienti da trattare con la terapia sperimentale)? La questione da valutare – concludono i ricercatori – è se i pochi miglioramenti ottenuti in varie neoplasie, in particolare con l’immunoterapia, siano davvero clinicamente rilevanti e aumentino davvero la sopravvivenza dei pazienti. Tanta strada c’è da fare, ma è anche uno stimolo per una maggiore ricerca preclinica e la progettazione di studi clinici condotti in modo rigoroso».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato