Il messaggio ai colleghi di Monsignor Andrea Manto, direttore del centro per la Pastorale sanitaria del Vicariato di Roma: «Formazione, aggiornamento, prevenzione e ricerca fondamentali insieme all’esigenza di fare squadra per garantire il meglio ai nostri pazienti»
«Il mondo sanitario faccia squadra per includere, accogliere e accompagnare gli ammalati in percorsi di cura sempre più umani pur sfruttando le grandi potenzialità della tecnologia». È l’appello rivolto da Monsignor Andrea Manto, medico e direttore del centro per la Pastorale sanitaria del Vicariato di Roma, nel suo intervento in occasione Forum sulla Medicina Sistemica dell’ASSIMSS (Associazione Italiana di Medicina e Sanità Sistemica). Un messaggio rivolto ad una ampia platea di operatori sanitari con l’intento di contribuire, proprio nel periodo di Pasqua, al rapporto medico-paziente e dare un nuovo senso alla sofferenza legata alla malattia. Sanità Informazione ha approfondito la questione proprio con il capo operativo della sanità vaticana.
Monsignor Manto, nella medicina come nella sanità la tecnologia riveste un ruolo sempre più importante. Questo crede che possa, però, creare una maggiore distanza tra medico e paziente?
«Nella malattia la persona non chiede solo cure più efficaci e l’eccellenza di un sistema organizzativo, ma anche la presa in carico della sua problematica. Per questo la tecnologia non basta. La sofferenza porta il paziente a chiedersi il senso di questa esperienza, a rileggerla in un orizzonte di speranza e condivisone, rapporto gli altri modificato e arricchito dalla solidarietà, giustizia e amore. Questo diventa un valore insopprimibile anche per la comunità cristiana e scientifica».
Prevenzione, formazione, aggiornamento e ricerca sono parole chiave per una classe medica che vuole portare avanti la sua missione, quella di garantire il diritto alla salute di tutti i pazienti. Quali sono le priorità?
«È fondamentale che tutto il mondo sanitario faccia squadra per includere, accogliere, accompagnare gli ammalati. È sempre più forte l’istanza di equità e servizio nell’accesso a chi è più fragile. L’attenzione a comprendere che i valori di prossimità non sono un costo ma un investimento e non un costo per una società più umana, serena e fraterna».
Nel febbraio scorso si è celebrata la 25esima Giornata Mondiale del Malato. Dover ancora richiamare l’attenzione su chi soffre con una giornata ad hoc come lo interpreta?
«San Giovanni Paolo II quando 25 anni istituì questa giornata, voleva mettere in evidenza proprio questo: richiamarne l’assoluta necessità sulle forti disparità che ancora ci sono nonostante i tanti strumenti a disposizione. C’è uno squilibrio rinomato tra il nord ed il sud del mondo, ma tante povertà sanitarie anche vicino a noi, ad esempio nella solitudine degli anziani o nella cronicità dei malati. Il tema della sofferenza non può essere ancora un tabù in una società che cerca sempre l’efficienza e l’indipendenza. Dobbiamo fare qualcosa di diverso, imprimere una svolta al percorso di cura. Nella malattia molte persone cambiano il loro sguardo, ne escono fortificati e arricchiti proprio come è successo a tanti santi come ad esempio San Camillo de Lellis o al fondatore dei Gesuiti Ignazio de Loyola».
Cosa chiede la Chiesa agli operatori sanitari?
«Noi lavoriamo molto per la formazione del cuore degli operatori, cioè sulla loro propensione all’umanità e accompagnare alla domanda di senso oltre che cure e strumenti terapeutici che i malati chiedono. Seguiamo ovviamente anche gli aspetti spirituali con suore, cappellani e diaconi negli ospedali, ma ritengo che un’opera importantissima sia quella del volontariato. Siamo vicini alle famiglie in difficoltà, spesso chiamate a confrontarsi con casi di salute mentale e con malattie rare che non hanno neppure un nome. Ci sono tante solitudini che vanno affrontate e la Chiesa, come comunità, nell’annunciare il vangelo e curare i malati, vuole farsi carico con amore, cura e sollecitudine di tutte le fragilità».