Riconosciuto come crimine di guerra dalla Corte penale internazionale ma presente nella maggior parte dei conflitti con l’obiettivo di annullare la resistenza e affossare il morale dei popoli occupati
Sono sempre di più le voci, le testimonianze e i racconti che parlano di come il crimine di guerra più odioso stia prendendo piede in Ucraina. Parliamo dello stupro di guerra, una vera e propria arma che ha caratterizzato molti teatri di conflitti degli ultimi 30 anni, dagli stupri etnici perpetrati in ex Jugoslavia ai rapimenti delle donne yazide in Iraq, a opera dell’Isis, per trasformarle in schiave sessuali. E ancora in Cecenia, Siria, Libia, per non parlare delle guerre civili che da decenni dilaniano l’Africa centrale. In Ucraina le milizie russe, stando a quanto denunciato da alcune autorità locali e da numerosi testimoni, starebbero colpendo non solo le civili ma anche le soldatesse.
In alcuni casi le vittime sarebbero state uccise dopo la violenza, e i corpi nascosti e fatti a pezzi per nascondere le prove. Un particolare degno di nota è questo: lo stupro è annoverato tra i crimini di guerra dalla Corte Penale internazionale, istituita nel 2002, ma né la Russia né l’Ucraina riconoscono la giurisdizione di quest’organo. Insieme a Vera Cuzzocrea, consigliera dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, abbiamo esaminato i contesti e le motivazioni in cui si sviluppa lo stupro come arma di guerra.
«Sicuramente lo stupro come arma di guerra ha l’obiettivo di affermare la conquista di un popolo attraverso l’umiliazione, la sottomissione e la completa disposizione di ciò che viene percepito come l’anello debole della catena: le donne, e il loro corpo. È uno strumento di deumanizzazione innanzitutto – osserva la psicologa – che viene quindi utilizzato strumentalmente per ledere la dignità di un popolo. Se avessimo dati più certi sull’utilizzo di questa modalità in Ucraina, vedremmo che le vittime sarebbero donne e bambini che tentano di mettersi in salvo lasciando indietro mariti, compagni, padri impegnati a combattere. Colpire donne e bambini significa indirettamente colpire l’esercito, colpire un Paese intero, rendendolo ancora più vulnerabile su un piano emotivo e simbolico, il cui impatto però, attenzione, ricade anche a livello sociale ed economico, oltre che fisico e psicologico».
«È necessario innanzitutto soffermarsi sulle vulnerabilità pregresse del contesto – afferma Cuzzocrea -. Lo stupro è infatti un fenomeno a forte connotazione sociale e culturale, ed è chiaro che anche come strumento di guerra, in generale, si incardina maggiormente nei Paesi in cui esiste una fragilità economica, sociale e culturale che a qualche livello legittima o comunque non condanna tale pratica. In molte zone del mondo teatro di conflitti, tuttavia, lo stupro di guerra viene perpetrato in contesti in cui le vittime difficilmente avranno accesso al sistema di cure e alla tutela giuridica, e questo dipenderà dalla percezione a livello sociale e giuridico del fenomeno tanto nel Paese di provenienza dell’aggressore tanto nel Paese in cui viene perpetrato. In molte culture – sottolinea la psicologa – sulle vittime di stupro vige ancora oggi uno stigma sociale, che disincentiva l’emersione del fenomeno e favorisce la cosiddetta vittimizzazione secondaria. Quel che è certo, è che lo stupro si connota come un evento traumatico in grado di provocare gravi conseguenze sulla salute psicofisica di chi lo subisce e di chi ne è testimone (pensiamo ad esempio al caso dei figli e delle figlie che potrebbero assistere all’atto) ma anche a livello collettivo, per la sua connotazione simbolica in uno scenario di guerra e per gli ulteriori aspetti di vulnerabilità che ne conseguono, che rappresentano presumibilmente il motivo per cui questo viene utilizzato nei conflitti».
«C’è un doppio piano di lettura nell’ambito della prevaricazione esercitata dallo stupro di guerra: l’affermazione di supremazia dell’uomo sulla donna e la supremazia della potenza attaccante sul popolo attaccato, in grado quindi – osserva Cuzzocrea – di colpire non solo la vittima diretta ma anche tutto il suo sistema di rappresentazione, sociale, familiare, etnica, politica. Poi, importantissimo, c’è l’aspetto del disimpegno morale – aggiunge -: si tratta di una strategia psicologica che il soggetto (l’aggressore sessuale in questo caso) mette in atto per svincolarsi moralmente dalla commissione di atti devianti. Sappiamo che in tempo di guerra dietro qualsiasi offensiva perpetrata c’è una catena di comando, un sistema che incoraggia o quantomeno legittima una determinata pratica. I soldati rispondono a ordini impartiti a un livello superiore. E le ricerche dimostrano che la commissione di un atto, anche aberrante, in obbedienza a un ordine impartito dall’alto, abbassa, in chi lo esegue materialmente il livello di consapevolezza e di empatia rispetto al danno causato. Lo stupro in guerra ne è un esempio lampante: la vittima viene deumanizzata, spersonalizzata, identificata con il suo popolo, che è il nemico da combattere. Ecco – conclude la psicologa – quanta influenza può avere un rodato sistema gerarchico in un contesto di conflitto bellico».
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