Il Presidente della Commissione d’Albo nazionale dei Podologi Vito Michele Cassano chiede più sedi universitarie per formare i podologi e ribadisce l’importanza della presenza del podologo nelle équipe multidisciplinari
Includere i podologi nella sanità di prossimità del post-pandemia. È la richiesta che arriva da Vito Michele Cassano, Presidente della Commissione d’Albo nazionale dei Podologi, che a Sanità Informazione spiega, in un lungo colloquio, il ruolo essenziale nella prevenzione che può svolgere il professionista podologo, oggi poco presente nel Servizio sanitario nazionale: «Diverse meta analisi concordano nell’annoverare il podologo come elemento imprescindibile e dimostrano che il team multidisciplinare per la cura del piede diabetico può ridurre i tassi di amputazione da un 49% ad un 85% a seconda della presenza di una o più complicanze d’organo» spiega Cassano. La conseguenza dell’assenza dei podologi dal SSN è che ad oggi le cure podologiche sono per quasi la totalità del territorio nazionale a carico completo dell’utenza: «La sola forma privatistica – spiega il presidente della Cda nazionale – comporta un aumento dei costi sanitari e sociali che ricade sulle fasce di popolazione meno agiate che tendono ad essere sempre più povere e meno inclini alla cura e soprattutto alla prevenzione delle complicanze del piede diabetico». Cassano promuove l’operato della Federazione nazionale TSRM PSTRP, che ha avviato un processo federativo «che si sta articolando nella giusta direzione» e dà appuntamento al primo congresso dei Podologi in programma a Napoli il 14 e 15 ottobre.
«La moderna podologia così come oggi conosciuta, nasce in seguito alla riforma del sistema sanitario Dlgs 502/92, passando per il DM 666/94, e matura con le Leggi 42/99 e 251/2000. Dal 2001 vengono istituiti i corsi laurea in Podologia, di durata triennale, presso le facoltà di Medicina e Chirurgia (riformando i precedenti diplomi universitari) ai quali si sono aggiunti i Master Universitari di primo e secondo livello di carattere prevalentemente professionale e specialistico, e la laurea magistrale in Scienze Riabilitative delle Professioni Sanitarie, comune a tutte le otto professioni dell’area riabilitativa, atta ad approfondire le competenze negli ambiti di della didattica, management e ricerca. Ad oggi soltanto sei sedi universitarie dislocate nel centro nord del Paese contribuiscono a soddisfare il fabbisogno formativo dell’intera Nazione, rappresentando una criticità che comporta una disomogenea distribuzione dei professionisti sul territorio con conseguente ricaduta negativa sui percorsi di cura rivolti alla popolazione».
«Avallerei la sua scelta spiegandogli che la professione di podologo ha già oggi basi solide ma con una prospettiva futura di allargamento delle competenze e di crescente rilevanza sociale. Attualmente il podologo italiano ha un vasto campo d’azione nella prevenzione, diagnosi podologica, cura e riabilitazione delle patologie e disfunzioni del piede, occupandosi del bisogno di salute delle persone in età evolutiva, adulti, sportivi e anziani fragili, intervenendo direttamente con propri metodi (incruenti) per la gestione di quadri patologici complessi, locali o conseguenza di fattori sistemici; questo fa del podologo un professionista a tutto tondo nei processi assistenziali, terapeutici e riabilitativi nel sistema salute. Ma questo non basta! Abbiamo una necessità professionale, a vantaggio della popolazione, che ci spinge verso contesti europei nel nostro ambito ben più avanzati (Spagna, Portogallo, Irlanda, UK, Malta, Cipro per fare degli esempi) che ci vedono un passo dietro, non consentendo, tra le altre cose, ai nostri giovani colleghi la libera circolazione nella UE, se non previa ulteriore e costosa formazione integrativa nel paese ospitante.
Infatti il profilo professionale di Podiatra (Podiatrist) ha competenze diagnostiche di patologia, prescrittive farmacologiche per non parlare di quelle chirurgiche che in Italia vengono precluse alla nostra professione a discapito proprio dell’appropriatezza delle cure alla popolazione con standard inevitabilmente inferiori, ma stiamo lavorando unitamente alla Federazione per colmare questo divario riformando i piani di studio universitari e il nostro profilo professionale per uniformarlo a quelli citati. Intanto centinaia di colleghi si stanno formando all’estero in attesa di un pieno e legittimo riconoscimento professionale, come avviene per altre professioni sanitarie».
«La situazione sociale e le scelte di politica sanitaria hanno collocato operativamente il podologo nella libera professione per la quasi totalità dei professionisti, con alcune piccole realtà alle dipendenze del Sistema Sanitario Regionale. Non vedo ad oggi una sostanziale e netta separazione tra il podologo privato e le esperienze di podologi dipendenti della sanità pubblica anche a fronte dell’importanza di includere i professionisti nella sanità di prossimità del post-pandemia. Ad esempio, in Regione Toscana la delibera 698/2016 introduceva a livello normativo la figura del Podologo del Territorio nel PDTA per la cura del piede diabetico; l’inclusione dei podologi libero professionisti in un percorso strutturato con il coinvolgimento delle associazioni dei pazienti e delle diabetologie ha portato alla creazione di una rete assistenziale che ben ha assorbito le esigenze della popolazione, anche in periodo di Covid-19. A questa esperienza si aggiungono quelle della Regione Lazio con il suo Piano della Malattia Diabetica (DCA U00581/2015) e della Provincia autonoma di Bolzano e con il DGP 1063/2017 che hanno deliberato l’offerta di prestazioni podologiche per il paziente affetto da diabete mellito di tipo I e II»
«Il piede diabetico rappresenta la complicanza d’organo più conosciuta e devastante con forte impatto negativo in termini sia economici che sociali che il podologo quotidianamente si trova ad affrontare, sia in strutture pubbliche, che private. Le recenti linee guida per la gestione del piede diabetico, sottolineano l’importanza della presenza del podologo all’interno dell’équipe per la cura di questa patologia, al fine di scongiurare eventi avversi quali ulcerazioni ed amputazioni con la conseguente possibilità di una netta diminuzione della spesa sanitaria. Gli standard-care della SID (Società Italiana di Diabetologia) e dell’IWGDF (International World Group of Diabetic Foot) prevedono nell’equipe operante, la presenza del podologo in tutti e 3 I livelli di gestione del piede diabetico dove nel 1° livello affianca il MMG per un’assistenza territoriale capillare mentre nel 2° e 3° livello è integrato nell’equipe multidisciplinare che lavora nelle fasi acute della patologia.
Le Linee Guida di molti Paesi (NHS Diabetes UK, International Diabetes Federation, Scottish Intercollegiate Guidelines Network, Federation of International Podiatrists, Canadian Diabetes Association) e diverse meta analisi concordano nell’annoverare il podologo come elemento imprescindibile e dimostrano che il team multidisciplinare per la cura del piede diabetico può ridurre i tassi di amputazione da un 49% ad un 85% a seconda della presenza di una o più complicanze d’organo. A questo quadro di per sé importante si aggiunge l’effetto della pandemia che ha impresso un’accelerazione alla crescita del diabete nel nostro Paese, non solo per la possibilità che il Coronavirus distrugga le cellule che producono insulina, ma anche per l’adozione di stili di vita poco sani. In parallelo, sta ricevendo grande attenzione l’ipotesi che le persone con diabete siano maggiormente a rischio di sviluppare il Long Covid, una condizione caratterizzata da sintomi persistenti dopo la guarigione che si manifestano anche con lesioni vascolari tipiche del piede diabetico. A questo grande capitolo si aggiungono infatti patologie come il piede reumatico, piede neurologico, piede geriatrico e piede oncologico; in quest’ultima patologia si sono registrati picchi di innalzamento a seguito delle somministrazioni di chemioterapici, che impattano fortemente sulla qualità della vita dei pazienti e per i quali il podologo può intervenire efficacemente tramite mezzi fisici, riabilitativi ed ortesici plantari e digitali. Ad oggi, pur riconoscendo il podologo come un professionista indispensabile nell’equipe multidisciplinare per la gestione del paziente complicato, abbiamo difficoltà a garantire l’accesso alle cure podologiche in gran parte del territorio nazionale».
«Considerata l’importanza legale (Legge Gelli-Bianco 24/2017) rivestita dalle LG basate su evidenze scientifiche, l’assenza di prestazioni podologiche all’interno del Nomenclatore tariffario nazionale dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), determina una gestione della governance sanitaria inefficace, inefficiente ed antieconomica nella produzione di valore in termini di salute pubblica, sicurezza ed adeguatezza delle cure e della persona assistita.
Su questo, infatti, la CdA Nazionale dei podologi si è spesa molto; recentemente abbiamo tenuto un’audizione presso la 12° Commissione Sanità e Igiene al Senato proprio in relazione all’importanza dell’inserimento delle prestazioni podologiche nel tariffario Nazionale dei LEA. Ad oggi, le cure podologiche sono per quasi la totalità del territorio nazionale a carico completo dell’utenza. La sola forma privatistica comporta un aumento dei costi sanitari e sociali che ricade sulle fasce di popolazione meno agiate che tendono ad essere sempre più povere e meno inclini alla cura e soprattutto alla prevenzione delle complicanze del piede diabetico. Occorre una policy maker atta a garantire livelli di assistenza essenziali per perseguire i bisogni di continuità assistenziale dei pazienti cronici tramite l’istituzione del podologo in un modello di integrazione sul territorio nazionale, anche a fronte dei previsti interventi di riorganizzazione della sanità (PNRR) con una migliore standardizzazione, equità d’accesso alle prestazioni sanitarie, prossimità e domiciliarità delle cure».
«Sicuramente la struttura ordinistica ha permesso ai podologi di godere di una maggiore tutela a livello territoriale, tradotta in interventi concreti, per esempio contro abusivi che a vario titolo avevano cercato di rientrare negli elenchi speciali ad esaurimento. Questo ci fa capire come, pur nell’eterogeneità delle nostre professioni, l’unione faccia realmente la forza. Anche se giovane, questa federazione ha un grosso potenziale e al recente congresso nazionale di Rimini si sono visti i frutti. Secondo noi il processo federativo si sta articolando nella giusta direzione e, nonostante oggettive difficoltà organizzative per una macchina operativa così complessa, il Comitato Centrale è riuscito ad interpretare al meglio le esigenze delle varie professioni compresa quella del podologo alla quale ha affidato l’importante coordinamento della sezione relativa alla libera professione e della cassa previdenziale. Colgo l’occasione per invitare tutti i colleghi al primo Congresso Nazionale dei Podologi organizzato a Napoli dalla nostra Commissione d’Albo, il 14 e 15 ottobre, presso la sede museale di Pietrarsa. Una location suggestiva che proietta la podologia italiana verso il futuro, dal nuovo codice deontologico alla riforma del profilo professionale. Sarà un’occasione di confronto e crescita su tematiche di cardinale importanza per tutta la podologia italiana».
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