La psicoterapeuta Eleonora Iacobelli analizza i moventi che possono spingere le madri a uccidere i propri figli: dalla sindrome di Medea alla frustrazione derivante dal ruolo di genitore
«Sembra impossibile ma non sono rarissimi i casi in cui le madri vengono accusate dell’omicidio dei propri figli. Le motivazioni vanno valutate caso per caso e ricercate nella storia personale della donna, ma volendo avventurarci in una generalizzazione, parte delle motivazioni di questo gesto sono da ricercare nella difficoltà della donna nell’accettare e gestire le emozioni e soprattutto le frustrazioni derivanti dal suo nuovo ruolo di mamma». Lo spiega la psicoterapeuta Eleonora Iacobelli, presidente Eurodap (Associazione Europea Disturbi da Attacchi di Panico) e direttore Scientifico Bioequilibrium, commentando l’omicidio della piccola Elena di 5 anni, uccisa dalla mamma Martina Patti.
«Un figlio comporta inevitabilmente uno stravolgimento dell’equilibrio lavorativo, affettivo e sociale dei genitori«, dice la psicoterapeuta. «Ma soprattutto della madre che subisce anche uno squilibrio a livello fisiologico ed ormonale. La fatica, la sensazione di non essere adatte o all’altezza, lo sfinimento, il senso di inadeguatezza, la vergogna per non sentirsi all’altezza, insieme a sbalzi d’umore ingiustificati, possono non essere manifestati apertamente – continua – ma crescere in maniera sotterranea fino a portare a vere e proprie psicosi. Quando una madre arriva a questo punto, tutto può accadere. I sintomi sono rintracciabili in uno stato confusionale, il delirio e le allucinazioni», aggiunge Iacobelli.
«In genere, quando una madre uccide il proprio figlio, c’è sempre qualcosa che precede il momento dell’omicidio ravvisabile nei suoi comportamenti, nelle relazioni con gli altri, nel suo passato», sottolinea Iacobelli. «Pur sottolineando che ogni evento è a sè – prosegue – i moventi possono ragionevolmente quattro. Sindrome di Medea, la madre che è stata capace di sacrificare i suoi figli per vendicarsi del padre. Le gravidanze indesiderate e l’ intolleranza alla frustrazione che inevitabilmente un figlio genera. E poi il tentativo estremo di proteggerlo da un mondo pericoloso. Qualunque sia il motivo è evidente la negazione di un disagio psichico che si è manifestato nel peggior modo possibile. E che, invece, meriterebbe di essere compreso e soprattutto curato ben prima che tutto ciò accada».
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