Salute 20 Giugno 2022 17:22

Cosa spinge un figlio ad uccidere il proprio padre?

Intervista alla psicologa e criminologa Cristina Brasi

di Stefano Piazza
Cosa spinge un figlio ad uccidere il proprio padre?

Lo scorso 12 giugno il diciannovenne Gianluca Loprete, che acccusava da tempo problemi psichiatrici, ha ucciso e fatto a pezzi il padre Antonio, direttore di banca di 57 anni, con cui viveva a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. «Correte, ho ucciso mio padre» ha detto agli operatori del 112 e quando i carabinieri sono arrivati nell’appartamento hanno trovato il giovane in stato di shock e il cadavere del padre in camera da letto straziato dai tentativi (non riusciti) di farlo a pezzi. Quando i soccorritori sono entrati nell’appartamento, davanti ai loro occhi si è presentata una scena definita «indescrivibile», con il diciannovenne con un coltello ancora tra le mani. Per gli inquirenti l’omicidio potrebbe essere stato commesso sabato 11 giugno 2022.

Secondo Cristina Brasi, psicologa, criminologa, analista comportamentale con laurea in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione e Master in Criminologia Forense, in diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità e sessuologia tipica e atipica, «le maggiori differenze che si ravvisano nei parricidci riguardano le motivazioni che spingono all’acting-out, la tipologia di arma utilizzata e la situazione familiare nel suo complesso. Nello specifico, gli adulti che commettono un parricidio presenterebbero, generalmente, un disordine mentale, come ad esempio la schizofrenia, che comporterebbero una distorsione della realtà che influirebbe sull’esame di realtà. Sono spesso presenti una storia di comportamenti violenti e segnalazioni ad opera di centri psichiatrici».

In questo caso, conformemente ad una prima ricostruzione, dopo avere aggredito il padre con un coltello, con l’ausilio di un’altra arma da taglio, Gianluca ha mutilato e sezionato in più parti il suo cadavere, come hanno dichiarato i carabinieri. Ad oggi non si conoscono i motivi per i quali Gianluca Loprete abbia commesso l’efferato delitto anche se i problemi psichiatrici del giovane e la convivenza forzata con il padre da tempo alle prese con una grave depressione dopo la separazione dalla madre del ragazzo, potrebbero aver fatto scattare l’atto omicida.

Ma Gianluca non aveva agito condotte di natura violenta in precedenza, risultano solo delle segnalazioni durante il lockdow per aver organizzato feste nonostante i divieti imposti per la pandemia, dove erano state anche consumate droghe. Un vicino di casa che ha raccontato degli ultimi due anni del ragazzo trascorsi tra molti problemi : «Lo hanno rovinato le canne e le cattive compagnie. C’era sempre un forte odore, il padre ci diceva di non essersene mai accorto. I problemi sono iniziati dopo il lockdown: venivano gli amici, salivano con le bici in ascensore, una volta un ragazzo è rimasto a dormire sul pianerottolo. Avevamo fatto anche un esposto per questa situazione, non si è saputo più niente – ha raccontato l’uomo -. Gianluca era andato per qualche tempo a vivere con la madre, tra l’Alto Adige e l’Austria. Quando era tornato, era più ombroso e salutava a fatica, anche se non portava più gli amici in casa».

Gianluca Loprete aveva abbandonato la scuola e seguiva un corso serale. Benché fosse un giovane adulto, la sua situazione era più simile a quella di un adolescente. Era quasi costretto a restare a casa, in quanto non in grado di trovare delle soluzioni alternative, non avendo a disposizione risorse economiche adeguate, come sottolinea Cristiana Brasi. Il padre invece era sempre più spesso a casa a causa della depressione per la quale era stato anche ricoverato. «Ha iniziato a prendere permessi in banca, erano più i giorni che non andava a lavorare. Sembrava rassegnato: la moglie se ne era andata, il figlio aveva quei problemi. Non alzava mai la voce, non reagiva – raccontano ancora i vicini -. Gianluca, invece, era più ombroso del solito».

Una tragedia, quella di Sesto San Giovanni, non certo isolata perché dal 2019 di casi di parricidio come questo se ne contano almeno una ventina e quasi sempre a commetterli sono i figli maschi, tra i 14 e i 51 anni: nella maggioranza dei casi, le vittime sono state uccise quasi sempre con l’arma bianca e gli aggressori soffrivano di gravi problemi psichiatrici. Solo una volta recentemente a uccidere il padre è stata la figlia: nel 2019 a Monterotondo (Roma) una diciannovenne accoltellò e uccise il padre ubriaco che stava aggredendo per l’ennesima volta lei, la madre e sua nonna. Nel passato ricordiamo invece il caso di Erika De Nardo che, oltre ad essere un’autrice di reato di sesso femminile, ha ucciso la madre, e il fratellino, quando, nella maggior parte dei parricidi, la vittima risulterebbe essere il padre.

In altri invece si è trattato di omicidi arrivati dopo anni di continue violenze che avvenivano in famiglia. Infatti, come fa notare Cristina Brasi, «gli adolescenti che arrivano a compiere un gesto tanto estremo, raramente presentano un disturbo mentale. Nella maggior parte dei casi, agiscono in conseguenza ad abusi e maltrattamenti da parte di uno o di entrambi i genitori, allo scopo di proteggere sé stessi o altri membri della famiglia. Le caratteristiche principali del parricida sono riconducibili a tre gruppi principali: parricidio da disordine mentale, parricidio da personalità antisociale e parricidio da minore abusato. Queste tre tipologie non si escludono a vicenda, spesso un disordine mentale emergerebbe ad esempio come conseguenza ad un abuso prolungato. Il trauma infantile potrebbe dare luogo a una disregolazione della risposta allo stress che favorirebbe lo sviluppo di strategie di coping disadattive, con maggiori probabilità di sviluppare disturbi di personalità. Per quanto riguarda l’arma utilizzata, mentre gli adulti prediligono le armi da taglio, gli adolescenti più di frequente scelgono armi da fuoco, in quanto hanno una ridotta capacità rispetto ad un adulto di sovrastare il genitore, a causa della disparità fisica; per la stessa ragione, i parricidi ad opera di adolescenti, piuttosto che coinvolgersi in un affronto diretto, avvengono in una situazione non conflittuale, in maniera tale che i genitori abbiano scarse possibilità di potersi difendere. In uno studio di Corder e colleghi è emerso come, i minori autori di parricidio, commettessero il reato come risposta ai continui abusi e maltrattamenti da parte dei genitori, presentassero un forte attaccamento alla madre e non avessero precedenti di natura violenta. I genitori inoltre venivano, per la maggior parte dei casi, uccisi in situazioni neutrali, quando ad esempio stavano guardando la televisione. Secondo Berkowitz sono le esperienze negative, con i loro ricordi e emozioni, a determinare una tendenza a reazioni violente o di fuga e, nel contesto ambientale, esisterebbero dei segnali scatenati l’aggressività (aggressive cues) che potrebbero favorire questo tipo di condotte, tra cui la presenza di un’arma in un luogo chiuso, quello definito weapon effect (effetto arma), temperature molto alte o basse e rumori molto forti. Soprattutto il weapon effect è da ricollegarsi alle cause facilitanti il reato di parricidio in quanto, la presenza di armi in casa e di facile accesso è una costante in molti studi condotti su questa tipologia di reato».

Nell’antichità romana, l’omicidio di parenti stretti, ascendenti, fratelli, sorelle o capi era il crimine considerato peggiore. Secondo Cicerone, il condannato veniva frustato e poi, con la testa avvolta in un sacco di cuoio, veniva cucito in un sacco e gettato nel Tevere o nel mare. Una legge promulgata da Pompeo (nel 70 a.C. o nel 55-52 a.C.) sostituì la pena di morte con quella prevista dalla lex Cornelia Sullæ de sicariis et veneficis, cioè l’esilio. In seguito, fu ripristinato e fu in uso sotto Augusto. Il suo ristabilimento fu accompagnato da un peggioramento, poiché gli autori del periodo imperiale indicano che al sacco furono aggiunti degli animali, una scimmia, un serpente, un gallo e un cane affamato. Oggi chi uccide suo padre è considerato una persona con gravi problemi psichici e raramente viene condannato alla pena massima. In Svizzera, un giovane di 21 anni è stato addirittura condannato a solo 5 anni per avere ucciso suo padre à Pfäffikon nel marzo del 2015.

 

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