Il parere della psicologa: «Più spazio al gioco libero, i genitori non siano ossessivi. E occhio a non confondere i ruoli»
“Mamma e papà, giocate con me?” è una frase che qualsiasi genitore si è sentito dire dai propri bambini. Una richiesta a cui aderire con piacere, ma che a volte, per stanchezza, noia o altri fattori, non viene accolta con particolare entusiasmo. Ed è lì che inizia una girandola di sensi di colpa, di inadeguatezza, di costrizione nell’ansia di aderire il più possibile ad un fantomatico modello di “genitore perfetto”.
Ma davvero il gioco è una cartina al tornasole così veritiera della qualità del rapporto tra genitori e figli? I bambini hanno realmente una necessità costante di relazionarsi in modo ludico con la mamma o il papà? Ne abbiamo parlato con la dottoressa Carolina Host, psicoterapeuta dell’Ordine degli Psicologi del Lazio esperta in dinamiche familiari e minorili.
«Una prima linea di demarcazione va tracciata necessariamente in base all’età del bambino: in età prescolare il bambino ha bisogno di essere inizialmente guidato nel gioco, che gli venga insomma proposto da un adulto. In età scolare invece il bambino inizia già ad avere una serie di competenze e simbolizzazioni nel gioco, spesso riproponendo attività quotidiane che vede fare ai genitori: dal programmare un elettrodomestico al cucinare, al far finta di essere manager in riunione (quest’ultima emersa soprattutto dopo il lockdown in cui il lavoro dei genitori è stato, di fatto, portato a casa). Questo rimodulare e “manipolare” il mondo degli adulti è uno step importantissimo nello sviluppo del bambino, che attraverso il gioco esercita il suo diritto di esprimere la sua percezione della realtà. Quanto è utile che un adulto stia seduto lì con lui ad osservare o intervenire in questi processi? Molto poco, addirittura potrebbe rappresentare un elemento interferente con la spontaneità del processo di gioco, perché il bambino potrebbe sentire di dover rispondere ad una aspettativa o comunque di seguire regole o consigli, suggerimenti impartiti da un elemento esterno, appunto l’adulto. E non dimentichiamo che il gioco libero dei bambini ci offre una rappresentazione fedele di come lui sta vedendo il mondo che lo circonda, diventando quindi una preziosa fonte di informazioni. Questo non significa certo poter lasciare il bambino a sé stesso ore ed ore, si tratta sempre di trovare un giusto mezzo».
Esploriamo ora il versante genitori: perché c’è questa smania, questo senso del dovere nel giocare con i propri figli, che poi in fin dei conti è un ossimoro?
«Il senso di colpa è un fattore che ritroviamo soprattutto nei genitori dei figli unici, come se non aver dotato il bambino di uno o più compagni di giochi fosse una colpa da lavare via con una presenza costante, anche nel gioco. Teniamo presente che l’abitudine di giocare con i propri figli è tipica dei giorni nostri, nel passato i bambini giocavano da soli o con i coetanei. Nei genitori che giocano ossessivamente con i loro bambini, che vogliono essere amici prima ancora che mamme e papà potremmo intravedere anche una sorta di schiaffo morale alla generazione che li ha cresciuti. Ma questo tornare bambini dei genitori può generare una grossa confusione di ruoli».
«C’è poi invece l’atteggiamento opposto: oggi si tende a diventare genitori intorno ai 30-40 anni, circa dieci anni dopo rispetto a cinquant’anni fa. È una generazione che ha fatto fatica ad affermarsi, a cui è stato detto che “doveva diventare adulta”, comprare una casa, trovare un lavoro e un’indipendenza economica, e che una volta raggiunti tutti questi traguardi ha difficoltà a “ritornare bambina” sedendosi a giocare con i propri figli. Più spesso si tende ad adultizzare questi ultimi, portandoli alle cene, agli aperitivi, adattando le loro esigenze alle proprie. Anche qui è necessario riappropriarsi di un senso della misura che sembra mancare: se non è corretto che a un genitore si chieda di tornare bambino, non è giusto nemmeno che un bambino sia costretto a comportarsi da adulto».
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