Uno studio realizzato dall’Istituto Besta e Mario Negri ha dimostrato che un piccolo peptide somministrato per via nasale sarebbe in grado di evitare l’accumulo delle sostanze tossiche che scatenano la patologia. Studiati gli effetti su modello animale, tra qualche anno la sperimentazione sull’uomo
Scoperta la molecola in grado di frenare l’insorgenza dell’Alzheimer nei soggetti predisposti. Buone notizie, dunque, a pochi giorni dalla 29° giornata mondiale dell’Alzheimer che si terrà il prossimo 22 settembre. Lo studio realizzato dai ricercatori dell’Istituto Besta e del Mario Negri di Milano ha dimostrato che un piccolo peptide, somministrato per via nasale, eviterebbe l’accumulo delle sostanze in grado di scatenare la patologia nei soggetti predisposti, ovvero dall’1 al 5% della popolazione oltre i 65 anni, con una prevalenza che raddoppia ogni quattro anni fino ad arrivare ad una percentuale di circa il 30% all’età di 85 anni.
In Italia oggi le persone che soffrono di demenza sono circa un milione e 480 mila con la prospettiva di arrivare a due milioni e 300 mila entro il 2050. Ancora peggio la situazione mondiale, secondo le stime di una ricerca realizzata dall’Istituto of Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington e pubblicata su Lancet, entro il 2050 le persone affette da Alzheimer passerebbero dagli attuali 55 milioni ai 139 milioni con conseguenze significative per l’intera comunità. Motivo per cui la scoperta dei ricercatori di Besta e Negri rappresenta un passo in avanti importante per lo sviluppo di un farmaco in grado di curare una delle malattie neurodegenerative più diffuse.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Molecular Psichiatry, si basa su una scoperta antecedente frutto di anni di ricerca, come spiegano a Sanità Informazione Fabrizio Tagliavini e Giuseppe Di Fede, neurologi dell’Istituto Besta di Milano «La novità di questa strategia, rispetto ad approcci terapeutici sperimentali precedenti, è rappresentata dal suo “punto di partenza”, poiché essa è basata su una rarissima variante genetica della proteina beta-amiloide che sembra in grado di proteggere dalla malattia di Alzheimer gli individui che ne sono portatori. La molecola che abbiamo sviluppato, in collaborazione con i colleghi dell’Istituto Mario Negri di Milano, è in effetti un piccolo frammento derivato da tale variante protettiva».
Si tratta di una scoperta che può rallentare il decorso della malattia anche se per ora si tratta di una soluzione potenziale: «Per il momento gli effetti della molecola sono stati studiati solo in un modello animale di Alzheimer – puntualizza Mario Salmona, biochimico dell’istituto Mario Negri – Si tratta di un topo a cui è stata inserita una piccola molecola che sembra ostacolare la formazione di aggregati tossici di almeno una delle due proteine coinvolte nella malattia, la beta-amiloide appunto, di rallentare la formazione delle placche amiloidi nel cervello e di proteggere le sinapsi dall’azione distruttiva della beta-amiloide».
A rendere innovativa la cura è anche la modalità di somministrazione, attraverso il naso «perché la piccola molecola che abbiamo sviluppato non è in grado di passare attraverso la barriera ematoencefalica (vale a dire quella sorta di filtro che separa il sangue dal tessuto cerebrale) – aggiunge Salmona -. La somministrazione per via intranasale consente invece al piccolo peptide (un frammento proteico di soli 6 aminoacidi) di raggiungere facilmente il cervello».
Se la scoperta dà ampi segnali di speranza, i tempi di messa a punto di una cura per l’uomo sembrano essere ancora lunghi «La criticità più importante deriva dall’esperienza delle sperimentazioni precliniche degli ultimi decenni – tengono a precisare i ricercatori -. Numerosi potenziali farmaci che avevano dato risultati promettenti nei modelli animali non sono poi risultati altrettanto efficaci nell’uomo. Una delle ragioni di tale discrepanza tra studi preclinici e studi clinici è dovuta al fatto che non esiste un modello animale in grado di replicare perfettamente il livello di complessità della patologia umana; per tale motivo può accadere che il passaggio dagli studi preclinici ai trials sull’uomo non confermi i dati promettenti di sicurezza ed efficacia delle molecole testate negli animali».
Una transizione ancora lunga, dunque, come confermano Tagliavini e Di Fede: «Ci vorranno prevedibilmente alcuni anni, durante i quali saranno necessarie ulteriori verifiche sui modelli animali, soprattutto al fine di escludere eventuali effetti tossici della molecola».
Riconoscere in anticipo i sintomi dell’Alzheimer, dunque, ancora non è sufficiente per fermare il decorso della malattia, ma è proprio in quella direzione che si sta concentrando la ricerca: «Al momento non è possibile arrestare la malattia in nessuna delle sue fasi evolutive ma, in linea di principio, si dovrebbe intervenire nella lunga fase pre-sintomatica, prima che si realizzino lesioni irreversibili nel cervello – confermano gli studiosi -. Un’area di ricerca molto attiva è volta al riconoscimento dei fattori di rischio e di marcatori che consentano di riconoscere la fase pre-sintomatica della malattia. Nel mondo sono in corso centinaia di studi sulla malattia di Alzheimer, molti dei quali finalizzati alla scoperta di terapie realmente efficaci. Anche le sperimentazioni che finora hanno fallito insegnano qualcosa e forniscono alla comunità scientifica nuovi dati e nuove conoscenze che potrebbero consentire di arrivare a identificare il farmaco in grado di fermare la malattia».
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