L’ultimo romanzo del neurologo e scrittore Giuseppe Bomboi è un racconto a più voci sulla realtà della malattia ed il senso della vita
Una memoria portentosa che scivola via a poco a poco, ma inesorabilmente. E sembra portare con sé l’anima, ciò che si è stati, per sé stessi e per gli altri. Intorno, l’amore impotente di chi resta, che vorrebbe fermare il tempo, e la dedizione e professionalità delle figure assistenziali, in un turbinio di eventi, con la pandemia a fare da sfondo, che porteranno ad un finale drammatico ma inaspettato. Sono questi gli ingredienti racchiusi nelle 230 pagine di “Vita senz’anima”, l’ultimo romanzo (in uscita il 30 settembre) di Giuseppe Bomboi, neurologo dell’ASL di Viterbo e scrittore.
«Il morbo di Alzheimer non è solo la malattia del singolo, ma anche della sua famiglia – esordisce ai nostri microfoni l’autore, da noi intervistato – che giocoforza innesca la nascita di un rapporto triangolare: il paziente, la famiglia, il medico».
Il libro, che coniuga un valore didattico/scientifico ad uno prettamente umanistico ed esistenziale, trae ispirazione da quasi vent’anni di lavoro dell’autore con pazienti affetti da Alzheimer e con le loro famiglie, e narra la storia (di fantasia) di un professore di latino e greco da poco rimasto vedovo, che parla con il quadro della moglie morta, affetto da una profonda depressione e dai primi, inequivocabili sintomi del morbo di Alzheimer. «La depressione è un aspetto cruciale nell’ambito della patologia da Alzheimer – sottolinea l’autore – e non è ancora del tutto chiaro quanto la prima influenzi l’insorgenza della seconda, o se piuttosto la seconda non si accompagni irrimediabilmente alla prima, almeno nelle fasi iniziali». Intorno al protagonista si affannano medici, infermieri, e una figlia amorevole sebbene alle prese con i suoi problemi personali. Il romanzo abbraccia un periodo di tempo che va dalla fine del 2014 e si spinge fino al futuro, al 2020. «Sei anni circa – osserva Bomboi – che non a caso è il decorso medio della patologia da Alzheimer: dalle prime fasi, la scoperta, fino all’epilogo. Le vicissitudini personali dei protagonisti si innestano, quindi, in una cornice storica particolarmente complessa, che culmina con la crisi globale dovuta alla pandemia».
Come anticipato, nel romanzo coesistono armonicamente pagine di natura scientifica, che spiegano le manifestazioni cliniche delle patologie nei suoi aspetti tecnici, e ampie riflessioni di carattere etico e filosofico, sul senso della vita e sulla fede. «La struttura del romanzo è corale – ci spiega l’autore – e ogni capitolo dà voce ad ognuno dei personaggi coinvolti nelle vicende del protagonista: lui stesso, i suoi familiari, il personale sanitario. Ognuno porta il suo punto di vista, il suo bagaglio di emozioni e conoscenze. Nei capitoli in cui è il protagonista stesso la voce narrante si assiste, in sincrono con lo scorrere del tempo reale e narrativo, al progressivo deterioramento delle capacità cognitive».
Nella realtà i caregiver, che siano familiari o extrafamiliari, hanno sempre un ruolo di primo piano nella gestione quotidiana dei pazienti sia sul versante pratico che emotivo, e questo ruolo emerge forte anche nel romanzo. «L’attenzione verso queste figure – afferma Bomboi – ha conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo importante: c’è una sempre maggiore consapevolezza sulla malattia, su ciò che comporta, che passa anche da un maggiore coinvolgimento delle famiglie sugli iter diagnostici e clinici, e sull’importanza di intercettare la malattia in una fase quanto più precoce possibile. Allo stesso modo, anche al team di medici, psicologi e infermieri che assiste il protagonista viene dato ampio spazio e risalto nel racconto».
«Ricordo un episodio in particolare – rivela l’autore – che, all’inizio della mia carriera, mi segnò profondamente dal punto di vista umano e professionale. All’epoca ero presso il centro U.V.A. (Unità Valutativa Alzheimer), ed un paziente già piuttosto avanti con la malattia, scrisse sul suo questionario di valutazione questa frase: “La mia perfezione non è perfetta”. Dobbiamo tuttavia considerare – sottolinea – che una grossa fetta di pazienti Alzheimer non ha insight riguardo alla propria malattia, non è cioè consapevole dell’inesorabile declino cognitivo cui sta andando incontro. Di conseguenza, per questi pazienti il dramma emotivo personale è in parte attutito. Fermo restando che, nelle fasi finali della malattia, la consapevolezza circa le proprie reali condizioni svanisce nella totalità dei pazienti. Questa consapevolezza – conclude l’autore – e il dramma che ne consegue, resta quindi un fardello dei familiari, lucidi davanti al proprio caro che svanisce giorno dopo giorno».
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