Fondazione Onda fotografa il vissuto e i bisogni delle donne con la malattia HER2+. Cambia inoltre la percezione del tempo: il 37 per cento da più valore alle piccole cose e al tempo in generale (30 per cento), ma quasi la metà dichiara di aver paura per il futuro e di percepire negativamente il tempo dedicato alla cura della malattia (20 per cento)
«Mi sento da sola, non riesco a spostare questa montagna che non mi fa vedere il futuro», «Dal momento della scoperta della malattia la vita precedente viene messa in stand-by», «Solo il presente è pensabile: il futuro crea angoscia», «Mi sento incatenata, mi sento vittima della malattia», «Io mi dedicavo sempre alla famiglia e al mio lavoro, ora devo stare a casa potendo fare poco o niente e questo mi distrugge», queste alcune testimonianze delle donne con tumore al seno HER2+ che hanno partecipato alla ricerca quali-quantitativa “Il vissuto delle pazienti con tumore al seno HER2+” di Fondazione Onda – Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, realizzata dall’Istituto di ricerca partner Elma Research, con il contributo non condizionato di Daiichi-Sankyo e AstraZeneca. I risultati dell’indagine sono stati presentati oggi a Milano in Spazio Leonardo, lo spazio polifunzionale di Leonardo Assicurazioni società Benefit, con cui Onda collabora da tempo.
L’indagine aveva come obiettivo primario indagare i momenti più significativi e le principali criticità delle pazienti colpite da un tumore molto aggressivo che rappresenta il 20 per cento1 di tutti i tumori al seno, con una stima di circa 11.000 nuovi casi l’anno2.
La parte qualitativa dell’indagine è stata svolta attraverso interviste approfondite con pazienti con tumore HER2+ in fase localmente avanzata e in fase metastatica, mentre la parte quantitativa ha coinvolto 122 pazienti, provenienti da tutta Italia con un’età media di 53 anni, per lo più con partner stabile (74 per cento) e figli (78 per cento) che circa nell’80 per cento dei casi erano in terapia, 2 per cento di nuova diagnosi e 19 per cento nella fase di follow up.
L’indagine ha fatto emergere quattro principali criticità per queste donne: la necessità di ricevere sostegno emotivo, il bisogno di maggiore informazione, il valore e l’attenzione alla prevenzione, la necessità di una migliore organizzazione del percorso diagnostico-terapeutico.
Più nel dettaglio, è risultato che per il 35 per cento delle intervistate è necessario un supporto a livello psicologico, attraverso la presenza costante della figura dello psiconcologo durante il percorso di assistenza; anche corsi per la gestione dello stress e tecniche rilassamento (23 per cento) e gruppi discussione tra pazienti (19 per cento) possono aiutare ad affrontare meglio la malattia. Si tratta infatti di una malattia molto complessa, che comporta rinunce e cambiamenti, basti pensare che un quarto delle donne in seguito alla diagnosi smette di lavorare, il 60 per cento rinuncia al proprio progetto di gravidanza, cambia la propria visione di sé stessa e del proprio aspetto esteriore (75 per cento). Pur con un grande sostegno da parte di famiglia e amici (61 per cento) e grazie alla guida dei medici (55 per cento), ci si sente sole, poco confortate e confuse. Il momento della diagnosi inoltre segna un punto di rottura con la vita precedente determinando un cambiamento nella percezione del tempo: le pazienti dichiarano di dare più valore alle piccole cose (37 per cento) e al tempo in generale (30 per cento). Al contempo quasi la metà dichiara di avere paura per il futuro e una su quattro percepisce negativamente tutto il tempo dedicato alla cura della malattia.
«Attraverso i dati raccolti con l’indagine presentata oggi è emerso come dal momento della diagnosi ci sia uno stravolgimento totale nella vita delle pazienti a livello fisico e psicologico, poiché la donna viene colpita sia nella sua femminilità sia nelle prospettive di futuro, modificandosi la vita di coppia, quella familiare e quella lavorativa – commenta Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda –. Il senso di spaesamento e confusione che accomuna i vissuti di queste donne, sottolinea la necessità di inquadrare chiaramente la patologia e il suo percorso di cura. Di fondamentale importanza anche i temi della prevenzione – nella maggior parte delle pazienti intervistate emerge una scarsa sensibilità alla prevenzione – e dell’informazione: esiste un gap comunicativo su ciò che ruota intorno alla terapia, servizi assistenziali, stile di vita, impatto della malattia sulla vita quotidiana».
Una intervistata su tre ritiene che, per aiutare a colmare il senso di confusione e vuoto sia necessaria una figura di riferimento che possa dare una visione di insieme degli step da seguire, che fornisca una piena conoscenza delle diverse opzioni terapeutiche possibili e delle strategie che si possono adottare così che le pazienti siano informate e possano avere un ruolo attivo nella scelta consapevole del percorso di cura. Ancora, che una migliore comunicazione e collaborazione tra medici di medicina generale e specialisti che si occupano di tumore al seno, migliorerebbe notevolmente il vissuto, facilitando la pianificazione di visite, controlli e follow up, ottimizzando l’organizzazione e diminuendo i tempi di attesa. Infatti, dall’indagine è emerso come il medico di medicina generale non sia considerato una figura di riferimento, bensì abbia un ruolo solo nella fase iniziale di diagnosi, per non essere poi più coinvolto nel monitoraggio dei sintomi o, più in generale, dello stato di salute della donna tra un controllo e l’altro. Aspetti che sono fondamentali per alleggerire quanto possibile gli accessi in ospedale e dare un sostegno lungo un percorso delicato come questo.
«È cruciale saper ascoltare e comunicare bene sia riguardo alla malattia che alla strategia terapeutica. Ci si cura per vivere e non si deve vivere per curarsi, per questo servono infrastrutture a supporto del percorso diagnostico e terapeutico e la capacità di comunicazione – afferma Filippo de Braud, Professore ordinario Università degli Studi di Milano e Direttore del Dipartimento e della Divisione di Oncologia Medica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano –. Gli enormi progressi scientifici e tecnologici non sono stati accompagnati da simili miglioramenti dei processi organizzativi e un esempio è che l’investimento sul costo delle terapie si è associato a uno sforzo equivalente per avere più figure professionali a garanzia della assistenza, come infermieri, case manager o medici».
«La malattia coinvolge l’intero sistema familiare e sociale della persona. Pensieri ed emozioni contrastanti affliggono sia la paziente ché il caregiver durante l’intero iter di cura, spesso modificandone le dinamiche relazionali e comunicative. È dunque fondamentale prevedere programmi di supporto rivolti a tutto ‘l’ecosistema famiglia’ che possano favorire l’adattamento ad una realtà in continua trasformazione», continua Chiara Marzorati, Psicologa Psicoterapeuta, Divisione di Psiconcologia, Istituto Europeo di Oncologia, Milano.
«Europa Donna Italia è a fianco delle donne affette da carcinoma mammario e ne anticipa i diritti in tutte le fasi a cominciare da quella diagnostica per intercettare da subito familiarità e tipologia di lesione in modo da intervenire immediatamente anche con attività di advocacy –, aggiunge Rosanna D’Antona, Presidente Europa Donna Italia –. Con Onda svolgiamo da sempre una forte e costante attività sinergica per far emergere, come in questo caso, i bisogni delle pazienti, poiché riteniamo che l’ascolto anche dei bisogni afferenti alla sfera emotiva facilitano il lavoro di assistenza di tutto il team multidisciplinare che si prende cura di loro nei centri di cura specializzati», conclude.
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