Il senatore dem, endocrinologo prestato alla politica, chiede di rendere libero l’accesso alla Facoltà di Medicina. Sulla sanità, sottolinea: «Urgente la riforma della medicina territoriale, non sprechiamo lezione appresa dal Covid»
«Sono sempre stato convinto, sin da quando ero un giovane ricercatore, che il numero chiuso alla facoltà di medicina non sia la soluzione. Vediamo se in questa legislatura si troverà una convergenza». Graziano Delrio, senatore e dirigente del Partito democratico, ha le idee chiare su come riformare l’accesso alle facoltà sanitarie. Endocrinologo, ha svolto lavori di ricerca negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Israele, e conosce bene pregi e difetti della sanità italiana, anche se non esercita più da molti anni.
«Molti colleghi vanno all’estero non solo per gli stipendi più alti, ma anche perché c’è una migliore organizzazione, è tutto più facile» sottolinea il dirigente dem, ex sindaco di Reggio Emilia ed ex Ministro delle Infrastrutture. Che poi punta il dito contro la carenza di personale sanitario, in particolare di camici bianchi: «Troppo spesso i miei colleghi devono sobbarcarsi un lavoro enorme per sopperire alla carenza di personale, per questo molti sono tentati dalla fuga».
«Non esercito dal 2000, ma sono dipendente dell’Università di Modena e sono responsabile Unità operativa del Policlinico di Modena».
«Secondo me sì. Il medico ha una sensibilità particolare per la cura, chi si occupa della cosa pubblica sa che l’attenzione ai beni comuni, a scuola, sanità, ambiente è un’attitudine comune tra la professione medica e quella del politico».
«Ci ha insegnato innanzitutto che abbiamo bisogno di più sanità territoriale, più vicina ai cittadini, capace di intercettare le solitudini. La sanità territoriale va molto potenziata, come previsto nella riforma approvata. Devono esserci più cure a domicilio, più case di comunità, più infermieri di comunità, c’è bisogno di più vicinanza che è la terapia migliore».
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«Mi preoccupa molto, significa regredire mentre invece l’Italia dovrebbe andare in linea con gli altri Paesi. L’importante è che sia una spesa buona, una spesa utile, efficace».
«Intanto facendo in modo che il lavoro sia ben organizzato, che i team siano efficienti, che non si debba diventare matti per poter esercitare la propria professione. Dobbiamo togliere la burocrazia e anche riconoscere un adeguato compenso perché l’evoluzione della società e anche i rischi legali della professione sono aumentati molto rispetto ai miei tempi, quindi la tentazione di scappare e di non sopportare tutte le fatiche legate a un ruolo così delicato aumentano. C’è anche il tema dello stipendio ma non è solo quello. Io ho lavorato all’estero come ricercatore e le dico che all’estero è tutto più facile, c’è più organizzazione. Col Covid si è manifestata anche una carenza enorme di personale, abbiamo adesso anche il problema che quelli che ci sono si sobbarcano un lavoro enorme. Tutto ciò non aiuta a fermare la fuga».
Lo toglierei. La mia opinione, fin da quando ero giovane ricercatore, è quella di mantenere una soglia di sbarramento al terzo anno sul modello francese. Su questo potrebbe esserci una ampia convergenza, vedremo».
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