Il pediatra: «Il concetto di esperienza avversa rappresenta un’evoluzione di quello di maltrattamento. Se fino a qualche anno fa, a questo termine si associavano violenza psico-fisica e abuso sessuale, oggi vengono inclusi anche quei vissuti di bambini che crescono in ambienti familiari conflittuali, all’interno di carceri o case famiglie o che sono vittime di traumi, diretti e indiretti, compresi quelli da disastro»
Vivono peggio e meno a lungo. È questo il destino delle vittime di maltrattamenti. Ma attenzione: ad essere a rischio non sono solo i piccoli che hanno ricevuto violenze fisiche e psicologiche. «Recenti studi scientifici dimostrano che un destino analogo può toccare anche a tutti coloro che, durante l’infanzia o l’adolescenza, sono stati protagonisti delle cosiddette “esperienze avverse”». L’avvertimento arriva da Pietro Ferrara, referente nazionale della Società Italiana di Pediatria (SIP) per abusi e maltrattamenti e professore di Pediatria presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, in occasione della Giornata dei diritti dei bambini, che si celebra il 20 novembre di ogni anno. In questa data, nel 1989 l’Onu ha approvato la Convenzione per la tutela nel mondo del diritto dell’infanzia e dell’adolescenza (CRC – Convention of the right of the child), ratificata in Italia con la legge 176/1991.
«Il concetto di esperienza avversa rappresenta un’evoluzione di quello di maltrattamento – spiega Ferrara -. Se fino a qualche anno fa, al termine maltrattamento si associavano violenza fisica e psicologica o l’abuso sessuale, oggi vengono inclusi anche quei vissuti di bambini che crescono in ambienti familiari conflittuali, in cui i genitori sono soliti litigare, in cui si verificano episodi di violenza domestica. Sono considerate esperienze avverse anche i traumi da disastro, che possono essere sia diretti, per coloro che lo vivono in prima persona, che indiretti, come nel caso di chi è bombardato da immagini negative tramesse in tv o in rete. Ancora, vivono esperienze avverse bambini che permangono a lungo nelle case famiglia o in carcere, come i figli di madri detenute», aggiunge il pediatra.
«Si tratta, dunque, di tutte esperienze che possono rappresentare una fonte di stress tossico e non tollerabile, che determina delle modificazioni bio-organiche all’interno dell’organismo, con conseguenze fisiche, sia a breve che a lungo termine», dice Ferrara. In letteratura scientifica sono sempre più numerosi i lavori che analizzano le conseguenze di tali esperienze avverse sulla salute: «Negli anni possono svilupparsi patologie come obesità e ipertensione, malattie cardiovascolari, ma anche malattie autoimmuni ed, in alcuni casi, anche tumori. Ma questi bambini non saranno solo adulti che non godranno di buona salute, vivranno anche meno a lungo rispetto al resto della popolazione – sottolinea lo specialista -. È stato dimostrato che queste esperienze negative vissute nell’infanzia sono in grado di erodere una parte del Dna, i telomeri, collegata alla longevità di un individuo».
Queste esperienze avverse sono, nella realtà quotidiana, molto più diffuse di molte patologie rare. Eppure nei percorsi di formazione in medicina, compresi quelli specialistici in pediatria, si dedica molta più attenzione allo studio delle patologie rare, per imparare a riconoscerne segni e sintoni, e pochissima all’analisi di tali fenomeni di maltrattamenti, intesi nel senso più ampio e moderno del termine. «Patologie rare ed infettive devono indiscutibilmente far parte del bagaglio culturale del pediatra. Ma, allo stesso tempo – dice Ferrara -, andrebbe incrementata quella formazione in grado di fornire gli strumenti adeguati a medici e pediatri ad intercettare e riconoscere la presenza di eventuali esperienze avverse che possano turbare la crescita e il corretto sviluppo del bambino. Un compito molto complesso considerando che, in questi casi, i sintomi sono spesso più sfumati ed aspecifici, rispetto a tutte le patologie che normalmente siamo abituati a considerare, in cui ad un sintomo corrisponde, nella maggior parte dei casi, una diagnosi».
Uno studio condotto all’interno dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, che ha coinvolto pediatri e specializzandi di diversi Paesi europei, ha testato il grado di formazione in materia di abuso e maltrattamento all’infanzia. Il risultato non è stato incoraggiante: «Il numero di ore dedicato, durante il processo formativo, all’individuazione ed alla presa in carico di queste problematiche è decisamente scarso in tutta Europa – commenta Ferrara -. Per questo, abbiamo ritenuto doveroso avviare un progetto di corsi formativi contro gli abusi sui minori, rivolto per la prima volta ai giovani medici delle Scuole di Specializzazione di Pediatria su tutto il territorio nazionale, realizzato con il contributo non condizionante di Menarini e il patrocinio della Società Italiana di Pediatria (SIP)».
«Insegniamo a pediatri e specializzandi a saper riconoscere segnali inequivocabili di violenza fisica, spiegando ad esempio quali sono le parti del corpo più coinvolte di altre con ecchimosi, morsi, fratture, ustioni. Tutte informazioni di cui sui libri di pediatria si trovano pochissime informazioni. Ancora, spieghiamo quali sono le aree genitali maggiormente interessate in caso di violenza sessuale, come visitare il bambino e scrivere il referto, in modo tale che, anche di fronte ad un solo sospetto, possa essere allertata l’autorità giudiziaria. Ci occupiamo di malattie sessualmente trasmesse e di tutte quelle situazioni che possano essere annoverate tra le esperienze avverse. Grande attenzione è, infine, dedicata alla comunicazione con le famiglie all’interno delle quali sia presente un disagio, una difficoltà. Insegniamo ai medici come approcciarsi alle mamme ed ai papà, che non bisogna puntare il dito contro questi individui, soprattutto in contesti come questi caratterizzati, nella maggior parte dei casi, da estrema povertà non solo economica – conclude Ferrari – ma anche affettiva».
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