Caggiano (psicologo del lavoro): «Chi si è pentito della propria decisione ha sovrastimato le proprie capacità e il numero di potenziali nuove offerte di lavoro che avrebbe ricevuto. Chi, al contrario, non si è rammaricato ha messo la propria felicità al primo posto». Ecco i risultati del sondaggio di Joblist sulla fase due della Great resignation
Erano convinti che avrebbero trovato presto un’alternativa migliore. Hanno commesso un errore di calcolo, sopravvalutando le proprie competenze, il numero di potenziali offerte di lavoro che avrebbero ricevuto o entrambe le cose. Ma, a prescindere dalla motivazione che li ha spinti a dare le proprie dimissioni, una cosa è certa: oggi, un dimissionario su quattro si è pentito della propria decisione. È questo che sta accadendo nella fase due della Great resignation: dopo la grande fuga da uffici e fabbriche, per molti è arrivato il pentimento.
«Chi si è pentito della propria decisione, molto probabilmente, è stato vittima di una dissonanza cognitiva: è possibile che un individuo si convinca talmente tanto di stare male in un determinato luogo, come ad esempio quello in cui lavora, da non essere più capace di vedere più nulla di positivo – spiega Giuliano Caggiano, psicologo del lavoro, founder InContatto srl e referente ambito Valutazione e Sviluppo dell’Ordine degli Psicologi del Lazio -. Il pentimento, infatti, di solito deriva dalla fusione di due aspetti: un’azione impulsiva ed un’aspettativa sovrastimata. Chi, al contrario, non si è pentito della Great resignation è perché (potendoselo permettere anche da un punto di vista economico) ha messo la propria felicità e quella dei propri cari al primo posto».
La fotografia di questa epoca di pentimenti emerge da un sondaggio firmato Joblist, realizzato su un campione di 15 mila persone in cerca di occupazione. La ricerca non dice solo che un lavoratore su quattro, il 26%, che ha rinunciato al proprio posto di lavoro è rammaricato della sua decisione, ma traccia una classifica dei pentimenti. In cima alla lista di coloro che vorrebbero poter tornare sui propri passi ci sono gli operatori del settore alberghiero: il 31% è pentito della decisione presa. In fondo alla classifica, invece, ci sono gli operatori sanitari: solo il 14% rinuncerebbe alle dimissioni date. «Il burnout causato dalla pandemia ha messo a dura prova il loro benessere psicofisico – continua Caggiano -. Durante l’emergenza da Covid-19, medici, professionisti e operatori sanitari, hanno dovuto far fronte, quotidianamente, non solo al sovraccarico di lavoro ed a turni massacranti, ma anche al timore di contagiare i propri cari ogni qual volta rientravano a casa al termine della giornata lavorativa. Per questo – sottolinea lo specialista -, è molto probabile che abbiamo tratto un reale beneficio dalla Great resignation».
Molti di coloro che hanno deciso di rinunciare al proprio posto di lavoro lo hanno fatto d’istinto: «Il 40% di chi si è licenziato non aveva un’alternativa, semplicemente ha firmato le dimissioni per eccessiva stanchezza. Ed è probabile che sia stata proprio questa decisione avventata di optare per la Great resignation – dice lo psicologo del lavoro – ad aver presto lasciato spazio alla nostalgia». Dal sondaggio emerge che nel 22% dei casi la ragione del pentimento è dovuta alla mancanza dei vecchi colleghi, per il 17% il nuovo lavoro è risultato peggiore di quel che si sperava o, addirittura, il vecchio impiego è stato rivalutato e ritenuto migliore di quanto si pensasse (16% dei casi).
Nei primi sei mesi di quest’anno, secondo i dati Inps, sono circa 307 mila le persone che hanno rassegnato le proprie dimissioni in Italia, +35% rispetto al 2021. A dimettersi sono stati soprattutto i millennials (76% dei casi) e lo hanno fatto perché insoddisfatti, demotivati e privi di obiettivi.
Non sono pochi i datori di lavori che hanno approfittato di questa ondata di pentimenti post-Great resignation, richiamando i vecchi dipendenti: al 23% degli intervistati è stato proposto di tornare al vecchio impiego, soprattutto nel settore dell’istruzione e della vendita al dettaglio. Ma solo il 17% ha detto sì, il 24% ha manifestato indecisione, gli altri hanno rifiutato senza indugi.
Il pentimento può essere un’ottima occasione per riflettere sui propri errori, trasformandosi, così, in una sorta di seconda opportunità. Ma come ogni opportunità che ci viene concessa è bene sfruttarla al meglio. «Affinché un nuovo eventuale lavoro non deluda ulteriormente le nostre aspettative dovremmo essere chiari, sia verso noi stessi, che nei confronti di un potenziale datore di lavoro, fin dal primo colloquio – spiega Caggiano -, non solo dichiarando onestamente le nostre competenze, ma anche le nostre aspettative. È bene mettere in chiaro quali sono i benefit di cui abbiamo bisogno, dalla remunerazione, agli orari di lavoro, fino ad una flessibilità che ci permetta di bilanciare in modo adeguato vita personale e vita professionale. Un’analisi di questo tipo ci permetterebbe di non sbagliare più, né scegliendo un lavoro che non fa per noi, né dimettendoci da un impiego che, a differenza di quanto erroneamente percepito, è del tutto adatto alle nostre esigenze. In altre parole, eviterebbe di scatenare, ancora una volta prima l’esplosione della Great resignation, poi – conclude Caggiano -, un boom di pentimenti».
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