Durante un incontro organizzato dall’associazione AMAD, dal sindacato Confintesa e da UIF all’Ospedale Sant’Andrea di Roma le testimonianze di medici, infermieri e OSS che hanno subito violenza. «Paghiamo lo scotto di un sistema che non funziona. Colpa anche dei tanti tagli alla sanità. Ma continuerò a parlarne perché è importante» racconta una di loro, Rossana
«Quando in passato parlavo di quest’aggressione scoppiavo sempre in un pianto a dirotto, è stato un momento doloroso dopo una vita dedicata a una professione che ho sempre svolto con amore». La dottoressa Susanna è uno dei tanti operatori sanitari che in questi anni hanno visto infrangersi la loro serenità e il proprio benessere psichico dopo un’aggressione accaduta sul posto di lavoro.
Un vero e proprio shock che può portare a una disaffezione sempre maggiore verso il lavoro e a conseguenze psicologiche serie. Resta essenziale parlarne, come avvenuto in un incontro all’ospedale Sant’Andrea di Roma organizzato dall’associazione Malattia Ansia e Depressione (AMAD) in collaborazione con il sindacato Confintesa Sanità e l’Unione Nazionale Forense (UIF). AMAD, grazie all’impegno della psichiatra e psicoterapeuta Marina Cannavò, sta raccogliendo le firme per una petizione che chiede misure urgenti per affrontare il fenomeno che non si limitano al pur necessario rafforzamento dei presidi di polizia promesso dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
«Abbiamo potuto verificare che la totalità dei partecipanti al convegno – afferma Alessio Minadeo, segretario Confintesa Sanità Lazio e Campania – ha subito nel proprio percorso lavorativo una o più aggressioni fisiche o verbali e psicologiche, e questo ci dà la conferma che i dati forniti dall’INAIL sono sottostimati rispetto al 70% dichiarato. La legge 113/20 è condannata all’inefficienza per la clausola di invarianza finanziaria contenuta nell’ultimo articolo, che di fatto rende da un lato inutile l’Osservatorio Nazionale, dall’altro irrealizzabili i protocolli da stipulare con le forze dell’ordine».
Era una tranquilla giornata di lavoro, come tante altre. La dottoressa Susanna era come sempre in anticipo, alle 8 meno dieci già pronta ad effettuare esami e visite. Alle 8 attendeva una paziente che aveva da fare ben tre esami per la durata complessiva di un’ora. Nessuno però si presenta alle 8. Così alle 9 arriva regolarmente la seconda paziente, che si spoglia e si stende sul lettino. «Ad un tratto – racconta la dottoressa – sento bussare e spalancare la porta. Era una ragazza sui 18-19 anni che spiegava di avere appuntamento alle 8».
La dottoressa le spiega che alle 8, nonostante avesse chiamato, non c’era nessuno ma le assicura che alla fine delle visite, o anche tra una visita e l’altra se ci fosse stato il tempo, l’avrebbe fatta entrare. La risposta non piace alla paziente che pretende di entrare: «Io ho diritto di entrare subito, alle 8 c’ero, non devo aspettare». Subito dopo arriva il padre della ragazza che inizia ad inveire: «Voi state sempre fuori a prendere il caffè, se lei lavora è perché lo stipendio glielo pago io».
Susanna reagisce verbalmente e lì scatta la violenza. La paziente la prende per il bavero e le dice: «Ti spacco la faccia, ti faccio passare i guai». Susanna chiede aiuto, interviene l’infermiera che chiama il vigilante. La ragazza scappa per le scale ma intanto Susanna si sente male, ha una crisi ipertensiva e viene visitata dal cardiologo. «Mi volevano portare al Pertini, ma ho rifiutato e sono andata avanti con il lavoro». Nessuna conseguenza fisica, ma tanti segni nell’animo.
La storia di Claudio, un giovane infermiere, avviene in un reparto di Psichiatria, reparto per definizione di non facile gestione. «Ero arrivato per un cambio – racconta -. Guardando il paziente e avendo esperienza, dato che venivo da un carcere giudiziario psichiatrico, avevo capito che non stava bene. Chiedo al medico se si può far stare più tranquillo con una terapia dato che in un primo momento aveva aggredito in modo lieve un altro collega». I medici però non accolgono la richiesta di Claudio.
Poco dopo toccava a Claudio somministrare la terapia endovenosa al paziente. Claudio chiede ai colleghi di stare con lui, perché non si sentiva tranquillo. I colleghi lo avrebbero raggiunto nel giro di qualche minuto. «Entro nella stanza e poco dopo il paziente mi prende per il collo. Cadiamo a terra, c’è una breve colluttazione, grido e subito dopo arrivano i colleghi».
Al netto della solidarietà dei colleghi, dalla struttura nessun sostegno concreto: «Noi non possiamo fare niente, perché la malattia è malattia. Le possiamo solo prendere. Chiedo aiuto all’azienda che però chiude le porte perché io in quel momento sono un problema. Ho chiesto supporto alla psicologa aziendale che mi ha dato il numero di un’associazione, ma non sanno nemmeno loro cosa fare».
Rossana, infermiera di Pronto soccorso, aveva già subito altre aggressioni verbali. Ma, come spesso accade, era andata avanti considerandole inevitabili in un reparto così critico come quello. Quella sera era in sala gialla e stava aiutando una collega. Una donna, che attendeva di essere visitata, stava fotografando e faceva video in barba ad ogni normativa sulla privacy. Lei le chiede di non registrare, mentre i colleghi chiamano la polizia.
«Ad un tratto arriva il poliziotto. Neanche il tempo di chiedergli di dire alla signora di non registrare che la donna mi aggredisce» racconta l’infermiera. La paziente le mette le mani addosso, le tira i capelli e cerca di strangolarla, il poliziotto fa fatica a fermarla. «Paghiamo lo scotto di un sistema che non funziona, all’estero non si permettono. Colpa anche dei tanti tagli alla sanità. Ma continuerò a parlarne perché è importante» racconta Rossana che oggi si sente sollevata a lavorare in un’altra struttura dove può allontanare il ricordo di quel brutto episodio.
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