Lo specialista: «La medicina è sempre stata androcentrica, nelle ricerche scientifiche venivano arruolati solo pazienti di sesso maschile. Ma i sintomi delle femmine sono diversi da quelli dei maschi e i due generi non rispondono ai farmaci allo stesso modo. A causa di queste peculiarità trascurate le donne, in media, ricevono una diagnosi 4 anni più tardi degli uomini»
Esistono trattamenti sperimentati solo sugli uomini, e poi utilizzati tra i pazienti di entrambi i generi, nonostante sulle donne abbiamo degli effetti diversi. Così come esistono patologie, l’infarto ne è solo un esempio, che si manifestano in modo diverso tra il sesso maschile e quello femminile. Ci sono, in altre parole, evidenti differenze di genere che non possono essere più ignorate, soprattutto ora che la medicina punta sempre di più verso la precisione e la personalizzazione. «Diversità che compromettono anche la tempestività della diagnosi: in media, per la medesima patologia, le donne la ricevono 4 anni più tardi degli uomini», spiega Carlo Alfaro, membro A.M.I.G.A.Y. (l’ Associazione per la tutela dei diritti sanitari in Italia LGTBI), consigliere nazionale SIMA (Società Italiana Medicina dell’Adolescenza), dirigente pediatra presso gli Ospedali riuniti della Penisola Sorrentina.
Per questo, anche la ricerca scientifica è sempre più declinata al maschile e al femminile, al fine di far emergere e descrivere le differenze tra i due generi. A dimostrarlo è il primo dei due documenti approvati dall’Osservatorio dedicato alla Medicina di Genere (MdG), che si è riunito nei giorni scorsi all’Istituto Superiore di Sanità. Tra gli studi condotti dalle Società scientifiche e Associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie prese in esame oltre la metà, più precisamente il 53%, ha istituito gruppi di lavoro specifici sulla MdG e ha organizzato sessioni ad hoc nei propri convegni. Scende al 31% la percentuale di coloro che hanno predisposto survey, mentre solo il 9% ha pubblicato rubriche e opuscoli divulgativi sulla tematica.
«È un risultato senza dubbio importante, se si considera che fino a qualche anno fa le differenze tra questi due generi erano del tutto trascurate dagli scienziati, -commenta Alfaro -. La medicina era androcentrica e nelle ricerche scientifiche venivano arruolati solo pazienti di sesso maschile. Ma le cellule femminili sono diverse da quelle maschili, rispondono ai farmaci in modo differente e le patologie hanno un’evoluzione non coincidente tra i due generi. Le donne hanno una soglia del dolore più bassa, ma per cultura sono portate a sopportarlo di più. Ancora, hanno un sistema immunitario più attivo e rispondono meglio ai vaccini, per cui avrebbero bisogno di dosi minori, così come per i farmaci. Per questo è necessario continuare a sostenere ed incrementare la ricerca di genere: solo continuando in questa direzione potremo salvare un numero sempre maggiore di vite umane», sottolinea lo specialista.
Il secondo testo presentato all’ISS, invece, offre indicazioni pratiche e concrete per predisporre protocolli di ricerca pre-clinica e clinico-epidemiologica che tengano conto dei determinanti di sesso-genere. «Anche questo documento rappresenta un importante e atteso contributo. Ma bisogna fare di più – aggiunge Alfaro -. Quando si parla di medicina di genere non bisognerebbe pensare solo al genere maschile o femminile, ma anche ai generi non binari, persone che hanno esigenze altrettanto specifiche di cura. Per farlo, dovremmo, già dalla compilazione dell’anagrafica del paziente, specificare il suo orientamento sessuale. Un’indicazione che non deve essere interpretata come una violazione della privacy, ma come l’opportunità di un approccio olistico. Pensiamo ad una persona che, dopo una transizione di genere, debba sottoporsi ad uno screening oncologico: in questo caso è necessario considerare anche il sesso biologico, oltre che quello attuale, per prescrivere gli esami più appropriati».
Per seguire la strada dell’inclusione l’Italia non dovrebbe partire da zero, né sperimentare metodologie e protocolli ex-novo: «I servizi sanitari americani sono già dotati di anagrafica inclusiva. Al momento dell’anamnesi viene richiesto oltre alle consuete generalità anagrafiche, come nome, cognome, età e sesso assegnato alla nascita, anche l’orientamento sessuale e il genere a cui il paziente sente di appartenere – racconta lo specialista -. Una raccolta dei dati personali così accurata non solo è estremante rispettosa dell’unicità dell’individuo, ma è anche utile ai fini della cura. I trattamenti offerti possono così essere più adeguati alle esigenze ed alle peculiarità del singolo paziente. È questa la vera medicina di precisione, la frontiera una sanità che metta al centro la persona con la sua storia e – conclude Alfaro – non consideri il paziente come un mero caso clinico».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato