Nuovi passi avanti su medicina di genere e medicina personalizzata. All’Ospedale del Mare di Napoli dimostrati i benefici della rimodulazione a parità di efficacia diagnostica
Aumentare la tutela e la sicurezza del paziente nell’ambito degli uno degli esami diagnostici più importanti in ambito oncologico: la PET (Tomografia a Emissione di Positroni). Questo l’obiettivo dell’innovativo studio ideato e diretto dal dipartimento di Medicina Nucleare dell’Ospedale del Mare (Asl Napoli 1 Centro) in collaborazione con l’Università Federico II di Napoli e l’Università di Padova, in pubblicazione sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale Nuclear Medicine and Molecular Imaging. I risultati emersi, che evidenziano l’importanza di utilizzare i parametri di sesso ed età per il dosaggio del farmaco radioattivo nella PET , si candidano a rappresentare una nuova pietra miliare nella strada verso una medicina sempre più personalizzata. Ce ne ha parlato nel dettaglio il dottor Marco Spadafora, direttore della U.O.C. Medicina Nucleare dell’Ospedale del Mare e artefice dello studio in questione.
«La PET, come tutti gli esami diagnostici di Medicina Nucleare, prevede la somministrazione di sostanze radioattive – spiega Spadafora – precisamente un radiofarmaco a due componenti: il glucosio marcato con fluoro-18. Il glucosio va ad accumularsi laddove c’è un aumentato utilizzo e quindi metabolismo dello stesso, ad esempio nei tumori e nelle infiammazioni. Questo glucosio, però, deve essere legato ad una molecola radioattiva per essere visibile, nei suoi accumuli anomali, dai tomografi. È un esame usato prevalentemente, ma non esclusivamente, in oncologia, che consente di individuare tumori primari, metastasi, e per valutare la risposta del paziente alla terapia».
«Fermo restando che gli esami di medicina nucleare vengono prescritti valutando attentamente il rapporto rischio-beneficio – prosegue il primario – le radiazioni ionizzanti presentano un lieve rischio aumentato di causare mutazioni del DNA e di indurre neoplasie. La radiosensibilità indica, appunto, questo rischio teorico aumentato. Ad oggi le linee guida, tuttavia, per stabilire la dose di radiofarmaco da somministrare usano esclusivamente i parametri di peso del paziente, e il livello di sensibilità dell’apparecchiatura. Sappiamo invece che esistono delle condizioni particolari di radiosensibilità, cioè la giovane età ed il sesso femminile: una ragazza di vent’anni che pesa settanta chili avrà una radiosensibilità maggiore rispetto ad un uomo ottantenne dello stesso peso».
«Questo studio – spiega Spadafora – nasce da un’osservazione quotidiana dei nostri pazienti con caratteristiche molto diverse tra loro, anche per sesso ed età, che si sottopongono alla PET. Ci siamo chiesti se una rimodulazione personalizzata della dose efficace di radiofarmaco, calcolata attraverso un algoritmo, non potesse fornirci le stesse informazioni diagnostiche riducendo il rischio aumentato di neoplasie. Abbiamo quindi calcolato il livello di irraggiamento, ovvero la dose efficace (che viene misurata in millisievert), sia in condizioni standard sia dopo aver applicato l’algoritmo di rimodulazione in base all’età. Oltre alla dose efficace abbiamo valutato un secondo parametro, ovvero l’ACR, cioè il rischio incrementale di induzione di neoplasie. È emerso – prosegue – che con la nuova dose efficace ridotta si riduceva anche il rischio incrementale di neoplasie. Applicando questi nuovi parametri, il rischio medio totale si riduceva del 6,5%, in particolare del 10% nelle donne e del 4% nei soggetti di sesso maschile. Analizzando il campione per età, dividendolo in 3 fasce (giovani fino a 30 anni, 30-60 e over 60) abbiamo visto che nei giovani la riduzione del rischio arrivava al 20%».
«Naturalmente – osserva il primario – la riduzione della dose deve accompagnarsi ad un aumento della durata dell’esame per avere lo stesso risultato. Nello studio, quindi, abbiamo proceduto a ridurre la dose e aumentare il tempo nei giovani, viceversa aumentare la dose e ridurre il tempo negli anziani. Questo perché negli anziani, dato il tempo di latenza di eventuali neoplasie, il rischio incrementale è pressoché insignificante, viceversa poter diminuire il tempo dell’esame può aumentare la compliance dell’anziano rispetto al sottoporvisi. La scelta che faremo in futuro sarà ridurre la dose efficace nei giovani, soprattutto nelle donne, e farci carico di un piccolo surplus di lavoro per l’aumento dei tempi necessari ad effettuare l’esame. Un carico assolutamente gestibile – sottolinea – a fronte di un beneficio che noi riteniamo significativo».
«Dobbiamo poi riflettere sul fatto che la maggior parte dei pazienti che effettua questi esami non li esegue una tantum – spiega Spadafora – ma, in fase di follow up, periodicamente. Ecco che allora la riduzione del rischio è ancora più impattante. Tutto ciò dimostra che sesso ed età sono parametri decisivi che devono influenzare la scelta del dosaggio del radiofarmaco da somministrare in una PET. Ma in generale, oggi che andiamo verso una medicina personalizzata, questi dati potrebbero dare il via ad una piccola rivoluzione culturale in tale senso, mostrando i limiti dell’approccio classico attuale e della eccessiva standardizzazione dei protocolli. Non si tratta più di dare la migliore opzione terapeutica al paziente medio – conclude il primario – ma la migliore opzione terapeutica ad ogni singolo paziente».
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