di Redazione – In tema di colpa professionale medica, in caso di cooperazione multidisciplinare, anche se non svolta contestualmente…
In tema di colpa professionale medica, in caso di cooperazione multidisciplinare, anche se non svolta contestualmente, ove venga richiesto un esame invasivo, il medico specialista chiamato ad effettuarlo deve necessariamente valutare, oltre alla presenza di fattori che possano condizionare negativamente l’esame stesso, anche la bontà della scelta diagnostica operata dal medico richiedente in relazione alla sintomatologia lamentata dal paziente, in presenza o meno di elementi ed indagini precedenti che avvalorino il sospetto della malattia ipotizzata.
Il caso. Nel caso di specie, un medico chirurgo veniva condannato in primo e secondo grado per il reato di omicidio colposo per avere causato una perforazione sigmoidea iatrogena a circa 11 cm dallo sfintere anale, nel corso di una colonscopia, su una paziente novantenne che da circa tre mesi aveva lamentato un’algia addominale e che in seguito moriva.
Ritenuto il ricorso infondato, la Corte ha affrontato la questione giuridica sotto più profili di responsabilità.
Sulla necessità e adeguatezza dell’esame diagnostico scelto. I Giudici di legittimità, nell’affrontare il primo profilo di colpa addebitabile al ricorrente, hanno confermato quanto stabilito dai giudici di merito che il medico non avrebbe correttamente valutato che, in ragione del sintomo prospettato, le linee guida non indicano la colonscopia tra gli esami consigliati. Ciò perché vi è un rischio notevole di perforazione della parete intestinale, tanto più su soggetti femminili in tarda età. Viene richiamato il valore delle linee guida come importante strumento di riferimento per il professionista, pur sottolineando il loro valore non vincolante e la necessità di una loro contestualizzazione.
Non è sufficiente un esame anamnesico, come in realtà effettuato dal medico, dovendosi a ciò aggiungere una imprescindibile valutazione della indicazione dell’esame nel caso specifico, pur se prescritto dal collega di medicina generale o da altro specialista.
Invero, l’endoscopista non può essere considerato mero ‘esecutore’, potendo lo stesso optare, ove sia il caso, per una diversa scelta medico-diagnostica.
Consenso informato. Tali conclusioni sono condivise dalla Corte. E ciò tanto più se si considera che lo stesso specialista sottopone al paziente la ‘Dichiarazione di avvenuta informazione ed espressione del consenso alla procedura diagnostica terapeutica’.
In questo senso, se è vero che il medico deve indicare al paziente i benefici della procedura, possibili inconvenienti e complicanze, nonché eventuali alternative alla procedura proposta, allora, appare evidente quando più sia necessaria una sua preventiva diagnosi clinica, a prescindere dalle richieste effettuate in via generale da altri colleghi, specialisti e non. Si ricorda sul punto come sia intervenuta nel 2017 la legge 219 che ha interamente disciplinato la materia della relazione di cura e del consenso informato.
Affidamento in ambito medico-sanitario. D’altra parte, i principi in materia di legittimo affidamento in ambito medico possono essere richiamati in questa sede, con specifico riferimento alla circostanza per la quale ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro professionista e controllarne la correttezza, anche, eventualmente, ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e come tali rilevabili tramite l’uso delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Cass. pen., n. 53315/2016).
L’obbligo di diligenza che grava su ciascun sanitario non è solo quello riguardante le mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui.
Nel caso di specie, trattandosi di specialista di settore, in ottemperanza al principio esposto, il ricorrente avrebbe dovuto valutare se una paziente con le caratteristiche proprie di quella a lui sottoposta, dovesse necessariamente subire una colonscopia o se si potesse svolgere altro esame meno invasivo.
A maggior ragione, se si considera che le linee guida ASGE (Società americana di endoscopia digestiva) non contemplano la colonscopia in presenza di un dolore addominale cronico come quello di specie.
Nesso di causalità. Con riguardo al nesso di causalità la Corte ha, infine, stabilito che non vi è dubbio che la morte della paziente sia stata determinata dalla peritonite conseguente alla perforazione intestinale, la quale non si sarebbe verificata in assenza della colonscopia.
Al ricorrente, peraltro, sarebbe rimproverato di non avere valutato la necessità dell’esame colonscopico, o, comunque di non avere valutato di sottoporre la paziente ad un altro preventivo esame meno invasivo.
Oltre ciò, si rimprovera al medico di non avere interrotto l’esame nel momento in cui si era reso conto della scarsa ‘toilette intestinale’ e di avere invece proseguito, facendosi strada con l’endoscopio ‘in qualche modo’ (così riportava il referto) fino alle sezioni destre dell’intestino.
A prescindere che la perforazione si sia verificata a causa della punta dello strumento o per strofinamento sulle pareti dell’intestino, la stessa è avvenuta in prossimità dell’inserimento dell’endoscopio e, come si ricava dalle stesse dichiarazioni del ricorrente, la scarsa toilettatura dell’intestino fin dall’inizio aveva reso complicato l’esame, non potendosi in questo modo né vedere le pareti, né farsi strada facilmente, considerato che era stato necessario pulire con acqua e aspirare.
Sulla scorta di tali ragioni, dunque, la Corte ha ritenuto corretta la valutazione della sussistenza del nesso causale in relazione ad entrambi i profili rilevati.
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