Fondazione Fiocchetto Lilla: «Non si contano più i tavoli di lavoro a cui abbiamo partecipato nel corso degli anni organizzati dal Ministero della Salute, dall’Istituto Superiore di Sanità, dalle Regioni… ma i tavoli di lavoro hanno una caratteristica: non arrivano mai ad un punto, per un motivo o per un altro. Troppe parole e pochi fatti. Investire nella prevenzione e nella ricerca. Riaprire i centri pubblici»
È stata presentata in diverse città d’Italia oggi 15 marzo, giornata nazionale del Fiocchetto Lilla dedicata ai disturbi del comportamento alimentare, la Fondazione Fiocchetto Lilla, che ha sede a Grosseto ed è nata dall’unione di tre associazioni (Così Come Sei, Mi Nutro di Vita e Perle Onlus) da anni impegnate nel far conoscere e riconoscere queste patologie. Un impegno nato dall’aver vissuto, personalmente o in ambito familiare, il dramma della malattia, che ha portato oggi alla creazione di un’unica realtà a livello nazionale. E che ha una richiesta, più che mai urgente, da portare all’attenzione delle istituzioni: concretezza, nel fronteggiare una vera emergenza sociale. Dopo anni di informazione, sensibilizzazione e buoni propositi troppo spesso caduti nel vuoto, le parole non bastano più. Anche perché i numeri sono quelli che inchiodano. A Sanità Informazione abbiamo raccolto la testimonianza di Mariella Falsini, presidente della neo-nata Fondazione Fiocchetto Lilla.
«Non si contano più i tavoli di lavoro a cui abbiamo partecipato nel corso degli anni – spiega – organizzati dal Ministero della Salute, dall’Istituto Superiore di Sanità, dalla Regione Toscana… ma i tavoli di lavoro hanno una caratteristica: non arrivano mai ad un punto, per un motivo o per un altro. Certo, tutti dimostrano sempre nei nostri confronti una grande sensibilità e capacità di ascolto, e sarebbe difficile il contrario, visti i numeri che snoccioliamo, ed i numeri sono persone: 3.600 morti all’anno per malattie del comportamento alimentare, 3 milioni di persone che ne soffrono, senza contare i componenti delle loro famiglie, perché si sa, il DCA riguarda il singolo ma travolge tutto il suo nucleo familiare, allora i numeri triplicano».
«La salute mentale, dalle cui problematiche derivano anche i DCA, è peggiorata durante e dopo il lockdown – osserva Falsini – e tanti disturbi si sono slatentizzati scoperchiando uno spaventoso vaso di Pandora, cui nessuno sembrava prestare la giusta attenzione. Abbiamo avuto in incremento del 46% di DCA a fronte di numeri già importanti. E allora – si chiede – perché a questi numeri le istituzioni poi, nei fatti, restano sorde? Di cosa parliamo se proprio durante il lockdown molti centri sono stati “rimodulati” sulla carta, ma di fatto sono stati chiusi, lasciando che i pazienti non potessero far altro che peggiorare, nell’impotenza delle loro famiglie?»
«Nell’opinione pubblica, purtroppo, i DCA sono spesso relegati a “capriccio adolescenziale”- prosegue Falsini – ad una fase transitoria che qualsiasi psicologo o psicoterapeuta è in grado di risolvere. Spesso poi ci si accorge sulla propria pelle che non è così, che è come chiamare e trattare come tosse il carcinoma polmonare. Allo stesso modo non si guarisce dall’anoressia imparando a mangiare un panino al prosciutto. I professionisti spesso non sono adeguatamente formati per trattare queste malattie, e per i pochi che invece lo sono, i DCA sono diventati addirittura un business, perché se da un lato chiudono i centri pubblici, dall’altro proliferano i centri privati o convenzionati. E intanto si continua a morire».
«Abbiamo bisogno di precocità diagnostica – sottolinea Falsini – perché è quella che salva la vita. Ma come è possibile oggi una diagnosi precoce se i tempi medi per una visita sono di 7/8 mesi? E abbiamo bisogno di luoghi di cura, e di poter attuare una prevenzione, vera, uniforme su tutto il territorio nazionale, che parta dalle scuole ma che soprattutto comprenda un follow up specifico per monitorare eventuali ricadute. La prevenzione non è una cosa che si può improvvisare: gli incontri in cui vengono spiegati i criteri diagnostici, come il dimagrimento a seguito del vomito autoindotto o l’utilizzo di lassativi e diuretici, in una fascia d’età in cui l’emulazione è un fattore determinante, potrebbero suggerire una serie di comportamenti anziché aiutare a prevenirli. E poi la ricerca scientifica – aggiunge – anche questo è un tema fondamentale: abbiamo sperimentato che gli integratori somministrati in caso di malnutrizione da anoressia nervosa o bulimia sono tarati per i pazienti affetti da malnutrizione derivante malattia oncologica. Ma questi danno effetti collaterali, così come i farmaci psichiatrici».
«Il punto – prosegue Falsini – è che i DCA sono “incompatibili” con la tendenza attuale a rendere la sanità performante, con ricoveri più brevi e le cure al domicilio. Il trattamento dei DCA implica spesso un percorso di temporaneo allontanamento dal nucleo familiare e la permanenza in centri dedicati. Questo perché, come tutte le patologie psichiatriche, i DCA si fondano anche su una serie di rituali e abitudini che è necessario scardinare cambiando il contesto, ma anche perché spesso l’atteggiamento dei genitori involontariamente può peggiorare la situazione. Quello che chiediamo a gran voce è concretezza, la possibilità di impedire che sempre più giovani cadano in questa spirale e soprattutto – conclude – facilitare i percorsi di cura per chi li sta già affrontando».
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