«Le famiglie chiedono di avere un sistema di servizi che garantisca la dimensione relazionale e sociale accanto agli aspetti più sanitari» spiega Mirella Silvani del CNOAS
Gli Assistenti sociali, che proprio in questi giorni festeggiano i trent’anni dell’Ordine oggi guidato da Gianmario Gazzi, hanno ottenuto un primo risultato: saranno presenti all’interno delle Case di Comunità, le nascenti strutture che saranno l’unità di base dell’assistenza sanitaria territoriale, almeno secondo il DM77. Un risultato importante, come sottolinea a Sanità Informazione Mirella Silvani, segretario del Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali e responsabile Sanità, che però chiarisce: «Ora dipenderà da come le Regioni attueranno questa previsione. Molte hanno aperto concorsi per assumere assistenti sociali nelle Case di Comunità. Una porta aperta in più per le famiglie e anche per portare uno sguardo sociale all’interno del contesto multidimensionale della salute. Stiamo avviando a livello territoriale un percorso di interlocuzione con le Regioni per accompagnare e sostenere questo processo».
Eppure, in questi anni è oggettivo l’arretramento del servizio sociale all’interno del Servizio Sanitario Nazionale nonostante tutti i proclami di integrazione socio-sanitaria. Nella prima legge istitutiva, correva l’anno 1968, era prevista la presenza di questa figura all’interno degli ospedali. Col tempo le cose sono cambiate e oggi non tutte le strutture hanno in organico coloro che, ad esempio, sono chiamati a gestire le dimissioni di persone che hanno fragilità e che necessitano di aiuto.
La dimensione sociale dei pazienti con problemi di salute mentale
Ma è nella gestione del paziente con problemi di salute mentale che l’assistente sociale è insostituibile. «A noi spetta la parte di costruzione del progetto di inclusione e di vita che tenga conto delle dimensioni sociali della persona. Garantire questo è fondamentale» ricorda Silvani, che non nasconde le criticità del sistema: «Abbiamo di fronte un sistema di servizi che non ha completato il suo sviluppo. Occorre una rete di servizi territoriali molto sviluppata e un lavoro di comunità che attivi tutti i soggetti. La vita di queste persone non si esaurisce nei Centro Psico Sociali o negli altri centri adibiti: bisogna garantire che la dimensione sanitaria si coniughi con la costruzione di un sostegno sul territorio che garantisca alla persona la sua dimensione sociale».
Ed è proprio la sfera sociale quella su cui le famiglie chiedono una presenza più forte del sistema socio-sanitario pubblico: «Le famiglie chiedono di avere dei percorsi che mettano al centro la persona e non la malattia e la diagnosi. La persona non è la disabilità. Questo mettere al centro la persona è per le famiglie anche riuscire ad avere un sistema di servizi che garantisca la dimensione relazionale e sociale accanto agli aspetti più sanitari ».
Assistenti sociali fuori dalle COT
Ed è in questa prospettiva che riappare l’Italia a macchia di leopardo con ventuno regioni e ventuno modelli diversi: alcune più avanzati, altri meno. Silvani, però, non nasconde che anche nel DM 77 si poteva fare anche qualcosa in più sul fronte socio-sanitario. Come per le COT, le Centrali Operative Territoriali, dove la figura dell’Assistente sociale non è prevista nonostante in alcuni territori, al contrario, ci siano già dei sistemi che la prevedono. «In alcune regioni ci sono già delle centrali di riferimento per le dimissioni protette e per la continuità assistenziale ospedale – territorio per cui sono già strutturati servizi all’interno del SSN con Assistenti sociali. Quelle regioni non torneranno indietro. E anche la regione Piemonte sta sperimentando un progetto in questo senso».
Ma come si svolge il lavoro di un assistente sociale nelle COT? «È importante che in queste centrali ci sia un operatore che abbia la competenze per rilevare il bisogno sociale che può avere una persona che sta uscendo dall’ospedale – conclude Silvani -. Deve saper lavorare con la rete sul territorio e avere conoscenze e risorse anche di carattere sociale. L’obiettivo è unire la visione delle Case di Comunità con la rete del territorio. Non vogliamo che le Case di Comunità diventino un poliambulatorio o, come hanno detto gli infermieri, un condominio a compartimenti stagni».
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