Salute 28 Marzo 2023 13:59

Dal ritardo diagnostico all’odissea della presa in carico: perché l’endometriosi è (ancora) un calvario…

L’associazione pazienti: «Nei LEA solo agli ultimi stadi della malattia. E tocca quasi sempre rivolgersi al privato»

Dal ritardo diagnostico all’odissea della presa in carico: perché l’endometriosi è (ancora) un calvario…

«Non ti lamentare», «E’ tutto normale», «Le donne sono fatte per soffrire». Sono solo alcune delle frasi che troppe donne affette da endometriosi si sentono dire nei difficili e lunghi anni (in media 8) che trascorrono tra l’inizio dei sintomi e la diagnosi. Intanto i dolori diventano costanti, invalidanti, e la donna si barcamena tra la pressione sociale che le impone di sopportarli in silenzio, e la ricerca di qualcuno che possa capirla e chiamare per nome quella sofferenza. Perché senza una diagnosi non può esserci cura. Nonostante l’aumentata consapevolezza sull’importanza di non sottovalutare la sintomatologia e le conseguenze sulla salute e sulla fertilità della donna con endometriosi, ancora oggi la vita delle pazienti è caratterizzata da una continua corsa a ostacoli: contro il pregiudizio, contro la carenza di personale specializzato, contro un sistema di tutele farraginoso e anacronistico. Nella Giornata Mondiale dell’Endometriosi che cade il 28 marzo di ogni anno, ne abbiamo parlato con Annalisa Frassineti, presidente di APE (Associazione Progetto Endometriosi).

Poca conoscenza della malattia

«Ci vogliono in media 8 anni per arrivare a una diagnosi di endometriosi – afferma – dopo anni in cui la paziente stessa può tendere a sottovalutare i suoi sintomi. Il ritardo diagnostico è da attribuire ad una scarsa conoscenza della patologia, sia da parte dei medici di famiglia sia da parte degli stessi ginecologi. L’endometriosi bisogna conoscerla e riconoscerla, e per farlo è necessario disporre di ecografi di secondo livello. Di conseguenza, l’esigenza più pressante delle pazienti è di avere sul territorio centri specializzati in endometriosi, che ad oggi non sono presenti in tutte le regioni, mentre in altre i medici specializzati ci sono ma sono molto pochi».

Dal calvario della diagnosi al calvario della presa in carico

«Trattandosi di una patologia multiorgano – spiega ancora Frassineti – e che investe anche la sfera psicologica delle pazienti, questi centri specializzati devono essere multidisciplinari e prevedere la presenza, oltre che del ginecologo, anche di un radiologo qualificato, di un gastroenterologo, di un urologo, di una riabilitatrice del pavimento pelvico, di una psicologa. Purtroppo, anche nei centri attivi, è difficile trovare questa compresenza di figure specializzate, con il risultato che la paziente deve rivolgersi a più specialisti che non comunicano tra loro, da cui deriva una presa in carico frammentaria e poco efficace. Ed invece – sottolinea – solo se curata adeguatamente la paziente con endometriosi può preservare la propria salute e la propria fertilità. Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, spesso prima della diagnosi si tacciano le pazienti di vittimismo, di scarsa sopportazione del dolore anche quando questo è insostenibile e invalidante, ed in questi casi la figura dello psicoterapeuta che conosce la malattia e può sostenere la donna è essenziale. Ma tocca rivolgersi al privato».

La contraddizione dei LEA

«Un altro tasto dolente: l’endometriosi è nei LEA – osserva Frassineti – ma solo per quanto riguarda il terzo e quarto stadio della patologia, con la previsione di una ecografia transvaginale ogni sei mesi, ed il resto delle spese che resta comunque a carico della paziente. A questo riguardo ci sono due problemi: il primo è che le liste d’attesa sono lunghissime, quindi per le pazienti con esenzione resta difficile usufruire di queste visite gratuite rispettando la scadenza semestrale, col risultato che sempre più spesso bisogna rivolgersi al privato. Il secondo è che per rientrare nell’esenzione bisogna avere una diagnosi chirurgica, quindi aver subito un intervento per endometriosi. Tuttavia – aggiunge – l’endometriosi viene trattata prevalentemente con terapia farmacologica: l’intervento chirurgico rappresenta l’ultima spiaggia, non è risolutivo, e può essere eseguito solo in caso di grave rischio ad altri organi (insufficienza renale o occlusione intestinale, ad esempio), ma soprattutto deve essere eseguito sempre in centri specializzati perché, se mal eseguito, può davvero rovinare la vita alla paziente, con ripercussioni ancora più gravi di quelle causate dalla malattia».

Formazione e uguale accesso alle cure

«Qualcosa si muove a livello istituzionale – annuncia Frassineti – il Ministero della Salute ha incaricato Agenas di portare avanti un importante progetto formativo per il personale sanitario. Ma per quanto riguarda le tutele, viene tutto demandato alle Regioni, molte delle quali però non hanno i fondi necessari allo scopo. Il punto è che la sanità dovrebbe essere unica, un diritto di tutte le donne garantito in egual misura su tutto il territorio nazionale – conclude la presidente APE – ma a fronte di alcune regioni virtuose ce ne sono altre in cui la paziente è ancora completamente abbandonata a sé stessa».

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