Lo psicologo Caggiano: «Tendenza in risposta alla great resignation, frutto dell’adattamento ai mutati contesti attuali»
Nuovi bisogni, aspettative, desideri: la pandemia per molte persone è stata un’occasione per ripensare completamente la propria vita, stilare nuove e priorità e tracciare bilanci. Per alcuni, il cambio di paradigma a livello lavorativo, con lo sdoganamento dello smart working, ha significato avere maggior tempo libero a disposizione, andare incontro alle proprie passioni, trovare nuovi sensi e significati rispetto alla propria professione, con la speranza di vedere crescere le aspirazioni di carriera a fronte di un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata.
Con la fine della pandemia queste istanze, tuttavia, spesso non hanno trovato delle risposte immediate nella realtà. In particolare sembra che la maggior parte delle aziende (soprattutto quelle di medio – grande dimensione) abbiano delle difficoltà ad intercettare e comprendere questi nuovi bisogni. La conseguenza è che nelle persone è subentrata una frustrazione professionale che ha generato rabbia, tristezza e ansia, con pesanti ripercussioni dal punto di vista psico-fisico.
A fronte di ciò, si sono configurati diversi approcci psicologici e comportamentali, che hanno dato vita ad altrettanti fenomeni sociali e correnti di pensiero. Ne abbiamo parlato con lo psicologo Giuliano Caggiano, del Gruppo di Psicologia del Lavoro presso l’Ordine degli Psicologi del Lazio.
«Di fronte a frustrazioni ed emozioni negative le persone, in genere, possono attivare 3 tipologie di reazioni/comportamenti: il primo è la rassegnazione, da cui scaturisce il fenomeno del quiet quitting, che porta le persone a fare il meno possibile, una sorta di ritiro silenzioso dalle attività/mansioni. Il secondo è il cambiamento, che ha dato luogo al fenomeno della great resignation, il vero e proprio “grande abbandono” del lavoro (In Italia nel 2022 si sono licenziate circa 2 milioni e 200.000 persone, nel 40% dei casi senza nessuna alternativa, un vero e proprio salto nel buio). Il terzo è l’accettazione/adattamento, che ritroviamo nei fenomeni del “job crafting” e del “quiet thriving”».
«Il quiet thriving (letteralmente prosperare silenziosamente) è una corrente che si sta affermando oltreoceano, e che probabilmente, col tempo, costituirà anche da noi l’evoluzione naturale delle precedenti due modalità del quiet quitting e della great resignation, connessa allo spirito di adattamento alle situazioni che fisiologicamente contraddistingue l’essere umano. Si tratta infatti di un modo nuovo per provare a “creare il lavoro con le proprie mani” (job crafting), modificando il modo di pensare la situazione/condizione lavorativa e, di conseguenza, intraprendendo azioni per sentirsi più coinvolti nel proprio lavoro e ritrovare, perché no, anche il piacere di lavorare. L’idea di base è che l’iniziativa individuale possa produrre, in un periodo circoscritto, cambiamenti apparentemente piccoli, ma decisivi per la qualità del lavoro svolto».
«Attraverso azioni che possono riguardare sia la dimensione individuale/introspettiva, sia la dimensione gruppale/relazionale. Nel primo caso avremo, ad esempio, la redazione di una lista di risultati e un aggiornamento costante degli obiettivi raggiunti, una impostazione temporale di obiettivi e priorità, lo stabilire dei limiti e degli orari da rispettare che lascino spazio alla vita privata, sostenere le proprie ragioni agendo in modo assertivo e stimolando il confronto costruttivo, trovare un aspetto del proprio lavoro da apprezzare e rivolgere l’attenzione principalmente sugli aspetti positivi, ma anche “creare” il proprio lavoro aumentando il tempo dedicato alle attività più stimolanti e contribuendo a creare iniziative che migliorino il clima aziendale, così come inserire pause divertenti durante il tempo di lavoro, prendersi, per esempio, anche solo 10 minuti per fare qualcosa di piacevole».
«In questo caso il quiet thriving passa per un miglioramento dei rapporti sociali, ad esempio scegliendo colleghi con cui avere spazi di interazione personale e non solo professionale, magari formando un gruppo di persone con le quali condividere le stesse idee, passioni, obiettivi. Da non sottovalutare la dimensione di contesto/ambientale apportando, ove possibile, modifiche al luogo di lavoro, ad esempio cambiando la disposizione degli arredi, dell’oggettistica, oppure, in generale, agli aspetti del layout dell’ufficio/luogo di lavoro in modo che sia più funzionale ai gusti e alle aspettative delle persone. Infine chiedere consiglio ad un esperto, soprattutto se si ha la percezione di sentirsi bloccati, per esempio, a psicologi e psicologi del lavoro che svolgono attività di coaching e counselling».
«Quelli elencati sono tutti comportamenti che un lavoratore/professionista può introdurre autonomamente nella propria quotidianità lavorativa (ovviamente nel rispetto delle specifiche mansioni, della natura del lavoro e delle aspettative e richieste del datore di lavoro e aziendali) per allineare il più possibile il lavoro con i propri bisogni, aspettative, motivazioni e passioni. In qualche modo, questa nuova forma di accettazione/adattamento al lavoro, anche se temporanea, potrebbe aiutare le persone a creare una nuova identità lavorativa ancorata al presente, attraverso un processo di personalizzazione del modo di lavorare e di profondo allineamento con le esigenze personali e professionali, con inevitabili benefici rispetto al proprio equilibrio psico-fisico».
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