La PET cerebrale consente di individuare precocemente le tracce relative alle due complicanze più frequenti e più gravi della terapia di frontiera CAR-T: la sindrome da rilascio di citochine e la neurotossicità CAR-T correlata che colpiscono la maggior parte dei pazienti trattati con esiti spesso fatali
Cinque minuti in più. È quanto basta aggiungere al tempo di una PET total body, esame di routine per i pazienti oncologici con linfoma a grandi cellule B, per ricercare nel cervello con una semplice scansione cerebrale, indizi utili per rilevare l’eventuale insorgenza di gravi effetti collaterali legati all’innovativa terapia cellulare. Per la prima volta un gruppo di ricercatori dell’IRCSS Ospedale Policlinico San Martino di Genova, ha individuato un possibile biomarcatore prognostico delle due più comuni e gravi complicanze della terapia CAR-T, la sindrome da rilascio di citochine (CRS) e la neurotossicità CAR-T correlata (ICANS), che colpiscono la maggior parte dei pazienti trattati, con esiti a volte fatali che preoccupano gli esperti impegnati a vagliare non soltanto l’efficacia ma anche la sicurezza del nuovo trattamento.
«Tramite le immagini della PET al cervello abbiamo individuato una specifica firma, legata al metabolismo cerebrale, indicativa della presenza di CRS e ICANS – sottolinea Silvia Morbelli, coautrice dello studio, Dirigente medico ricercatore dell’Unità di Medicina Nucleare dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e professore associato di Medicina nucleare all’Università di Genova -. L’individuazione di questa firma è preziosissima – prosegue Morbelli – perché ci consente potenzialmente di selezionare in modo più efficace i pazienti per cui la terapia CAR-T presenta maggiori rischi di neurotossicità. E se confermata in successivi studi potrà servire da biomarcatore precoce e prognostico».
La terapia con CAR-T (Chimeric Antigen Receptor) è un trattamento rivoluzionario che utilizza cellule del sistema immunitario opportunamente addestrate per riconoscere e contrastare il tumore. È considerato il futuro della lotta alle neoplasie ed è stata approvata dall’AIFA tre anni fa per i pazienti con linfoma diffuso a grandi cellule B e con leucemia acuta a grandi cellule B che non rispondo ad altre opzioni terapeutiche. «La terapia cellulare CAR-T utilizza come cura i linfociti T del paziente, una delle cellule più importanti del sistema immunitario. Tali linfociti – spiega Emanuele Angelucci, coautore dello studio e Direttore dell’Unità Operativa Ematologia e Terapie Cellulari dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova vengono estratti da un prelievo di globuli bianchi e, attraverso un virus, viene inserito nel loro DNA un gene che fa in modo che sulla superficie del linfocita appaia una proteina che fa da ‘chiave’ per riconoscere le cellule tumorali. Una volta reinfuse le cellule prelevate dal sangue del paziente sono in grado di riconoscere una proteina che è espressa sulle cellule tumorali che viene poi attaccata».
«E’ un trattamento di frontiera per i tumori del sangue che sorgono da mutazioni di linfociti B, come nel caso del linfoma, che ha dimostrato un’efficacia elevata grazie all’azione precoce e al miglioramento del tasso di sopravvivenza – continua Angelucci -. Nel 2021 sono state eseguite circa 200 procedure in Italia, ma il numero di pazienti trattati con CAR-T è in progressivo aumento. Adesso stiamo viaggiando sulle diverse centinaia di casi all’anno e il San Martino di Genova è un punto di riferimento nazionale e l’unico centro in Liguria abilitato all’utilizzo delle cellule CAR-T. E dalla fine del 2020 abbiamo somministrato 46 terapie»
«Tuttavia, queste nuove terapie, che hanno una grande potenzialità, comportano rischi di complicanze gravi, a volte fatali, sviluppate dalla maggior parte dei pazienti – dice Angelucci -. Uno degli effetti collaterali più probabili è la sindrome da rilascio di citochine CRS, caratterizzata da una reazione infiammatoria sistemica incontrollata. Una vera e propria tempesta di citochine scatenata dall’attivazione dei linfociti T. La CRS colpisce circa la metà dei pazienti sottoposti a terapia CAR-T e, generalmente, insorge alcuni giorni dopo la reinfusione. I sintomi sono febbre, abbassamento della pressione e brividi, arrivando ad esiti anche mortali, se non conosciuta e trattata in maniera immediata».
Se la CRS si verifica nella maggioranza dei pazienti, circa un terzo viene colpito da una seconda sindrome a sua volta potenzialmente fatale, chiamata sindrome delle neurotossicità correlate alla terapia con CAR-T. «L’ICANS è una sindrome ancora molto poco conosciuta di tossicità neurologica e il termine è estremamente generico perché non se ne conosce ancora bene l’origine e il meccanismo – puntualizza Angelucci -. I sintomi sono i più vari dal punto di vista neurologico, perdita di coscienza, convulsioni, tremori eventualmente preceduti da disturbi cognitivi di vario tipo a volte anche nella scrittura».
Lo studio ha coinvolto 21 pazienti con linfoma a grandi cellule B e sottoposti alla terapia CAR-T, di cui 16 hanno sviluppato la sindrome da rilascio di citochine, che in 5 casi è stata seguita dalla comparsa di neurotossicità CAR-T correlata. I ricercatori hanno messo a confronto le PET cerebrali dei pazienti, utilizzando specifici algoritmi, e hanno scoperto la presenza di specifiche tracce della condizione di sofferenza metabolica, detta ipometabolismo, nei pazienti con CRS ed ICANS. «All’esame PET total body abbiamo associato a una scansione dedicata all’acquisizione cerebrale e con un software abbiamo valutato il metabolismo del cervello – osserva Morbelli -. Dal confronto con pazienti affetti da sindrome da rilascio di citochine e pazienti che non avevano sviluppato complicanze, è emerso che i pazienti con neurotossicità da CAR-T avevano aree di sofferenza metabolica molto più estese rispetto a quelle senza CRS e maggiormente localizzate in corrispondenza della corteccia frontale».
«Questo ci dà di fatto un biomarcatore che rende obiettivo questo aspetto clinico e che, potenzialmente, può consentire di capire chi è più propenso a sviluppare queste complicanze e di delineare il trattamento alternativo più adatto – concludono Morbelli e Angelucci -. Questi risultati potrebbero essere estesi a tutti i pazienti trattati con CAR-T che stanno crescendo molto».
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