Intervista a Fabrizio Pulvirenti, il medico guarito dal terribile virus: «La ripresa dei focolai della malattia coincide con le zone di deforestazione». Stabili le condizioni del “paziente 2”
Non è il destino che ha determinato i nuovi focolai di Ebola. C’è la mano dell’uomo e la sua voracità dietro questa nuova catastrofe.
È questo il risultato di alcune ricerche che sta portando avanti Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency che ha lavorato a lungo in Africa ed è stato il primo paziente italiano contagiato dal virus e poi guarito. Per Sanità informazione abbiamo intervistato Pulvirenti per approfondire lo sviluppo della malattia che purtroppo ha contagiato anche un altro nostro connazionale, ora in cura allo Spallanzani.
Dottore, sappiamo che è in contatto con i colleghi dell’Inmi e con il collega malato: cosa ci può dire?
«Siamo in contatto, ci sentiamo telefonicamente con i colleghi dello Spallanzani, mi danno di tanto in tanto notizie del collega che, per quello che mi è dato sapere, sta relativamente bene».
Al di là del decorso della malattia, la sua esperienza è stata significativa, deve essere particolarmente difficile questo periodo di isolamento totale.
«È l’aspetto più difficile nella gestione della malattia, al di là del malessere, che io ho potuto provare e sperimentare sulla mia pelle, ho passato in isolamento 5 settimane della mia vita e sono davvero tante perché il tempo non passa mai e comunque non puoi uscire dalla stanza in cui ti trovi per il rischio di contagio per gli altri operatori. Quindi è un aspetto anche psicologico che bisogna tenere in considerazione».
Lo sviluppo di Ebola sembra sempre in qualche modo sul punto di essere arginato ma ogni volta ci sono nuovi focolai, nuovi casi. Ci accennava a una ricerca da lei condotta con riscontri interessanti.
«Io ho ripreso alcuni studi che sono stati fatti qualche anno fa e ho confrontato le mappe della deforestazione in Africa con le mappe di insorgenza dei primi focolai di epidemia. È impressionante notare quanto siano assolutamente sovrapponibili. Ebola compare laddove la foresta viene a mancare perché la deforestazione avvicina i centri urbani alla fauna selvatica e questo probabilmente è quello che fa scattare i primi focolai epidemici, ma questo già a partire dal 1976. Poi, di anno in anno, si sono ripetuti piccoli focolai epidemici ed è veramente impressionante mettere le mappe a confronto».
Nel trattamento, nella diagnosi e nel contenimento dell’epidemia, un ruolo sempre fondamentale è quello della formazione, essere in grado di diagnosticare Ebola e di adottare provvedimenti e linee guida che assicurino il massimo della protezione. Su questo forse si potrebbe fare ancora di più?
«Credo che davanti ad una patologia molto grave come è l’infezione da Ebola gli operatori debbano essere tecnicamente ben preparati, non ci si può improvvisare operatori, è necessario un training prima di entrare in zona rossa ma è necessario anche un training per gestire il caso che arriva in occidente: in Italia, così come negli Stati Uniti o in Francia. Io, se mi è consentito dirlo, ho visto le immagini del trasferimento del collega di Emergency da Sassari e francamente sono impressionanti. Vedere le persone che in abiti civili stanno praticamente attaccate alla barella di alto contenimento biologico è strano, ecco…».
Proprio il caso dell’infermiere di Sassari fa pensare come una formazione di base almeno su questi temi sia indispensabile un po’ per tutti gli operatori sanitari. Abbiamo letto come i tecnici di laboratorio che si sono trovati a Sassari ad analizzare il sangue, solo in un secondo momento si siano resi conto di quali potessero essere i rischi.
«Nel momento in cui il collega è arrivato in Italia e ha avvertito i sintomi sarebbe forse stata necessaria una maggiore formazione del personale. Non entro però nel merito della questione perché non conosco i parametri e i criteri adottati».