La presidente FNOPO: “L’insicurezza circa la propria capacità di assumere nuove responsabilità genitoriali, la rabbia verso la gravidanza accidentale e la gelosia nei confronti del nascituro sono le principali motivazioni che inducono il partner ad assumere comportamenti aggressivi ed ambivalenti nel periodo perinatale”
Abusano emotivamente della propria donna. Praticano una forma di violenza subdola che, non lasciando tracce tangibili, è difficilmente notata dall’esterno. Ma questo è, nella maggior parte dei casi, solo il preludio di una violenza fisica che, invece, lascia anche segni sul corpo, visibili agli occhi di tutti. “Nel 5,9% dei casi le donne subiscono maltrattamenti per la prima volta durante la gravidanza”, denuncia Silvia Vaccari, presidente della Federazione Nazionale degli Ordini della Professione Ostetrica (FNOPO), alla vigilia della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne che, ufficializzata dalle Nazioni Unite nel 1999, si celebra il 25 novembre di ogni anno.
“Tuttavia, queste percentuali (Istat-2014) sono stime parziali: si basano solo su ciò che viene riportato volontariamente dalle vittime, spesso riluttanti a denunciare la propria esperienza, per paura di ritorsioni da parte del partner e il timore che vengano coinvolti i servizi sociali – continua Vaccari -. L’insicurezza circa la propria capacità di assumere nuove responsabilità genitoriali, la rabbia verso la gravidanza accidentale e la gelosia nei confronti del nascituro sono le principali motivazioni che inducono il partner ad assumere comportamenti aggressivi ed ambivalenti nel periodo perinatale – racconta la presidente della FNOPO -. Questo spiega il motivo per cui nel 30% dei casi la violenza comincia nel secondo o terzo trimestre, quando si palesano i cambiamenti fisici più evidenti e la gestazione viene riconosciuta anche a livello sociale. Nei mesi successivi al parto le donne sono più suscettibili di abuso, in quanto sottoposte a maggiore stress per le modificazioni fisiche, relazioni intime e per la nuova sfida genitoriale”.
In letteratura, diversi autori, hanno individuato delle categorie di atteggiamenti e comportamenti, espressioni verbali, segnali relazionali, ambientali e fisici che fanno sospettare una violenza in atto denominandoli con l’espressione ‘red flags’, traducibile come campanelli d’allarme. “L’individuazione di qualsiasi campanello di allarme nel corso dell’assistenza ostetrica, soprattutto se effettuata al domicilio della donna, dovrebbe indurre l’ostetrica a sospettare una violenza in atto, ad approfondire le dinamiche relazionali tra la donna e il partner ed attivare la rete per tutelare la donna ed agganciarla ad un percorso di uscita dalla violenza”, dice la Presidente Vaccari.
Considerando l’home visiting come uno strumento operativo per accompagnare e sostenere la genitorialità fragile attraverso la costruzione di una relazione di aiuto, è possibile supporre che l’assistenza domiciliare ostetrica possa agevolare la prevenzione e il riconoscimento della violenza domestica, riducendone le conseguenze dannose. “L’ostetrica, infatti, in occasione della visita domiciliare ha l’opportunità di osservare le dinamiche relazionali nel luogo in cui si consumano, la casa, e di cogliere red flags fisiche, comportamentali ed ambientali, espressione di una relazione maltrattante, che non sarebbe possibile riconoscere nel contesto clinico ospedaliero. Anche per questo – sottolinea Vaccari – nel 2020 la FNOPO ha proposto di implementare il modello di “ostetrica di famiglia e di comunità” con la finalità di promuovere la centralità del ruolo e della salute della donna nei sistemi familiari e sociali, con l’obiettivo di accrescere l’empowerment, la consapevolezza e il benessere di tutti gli individui, migliorando il welfare di comunità”.
Quando a subire la violenza è una donna in gravidanza rischi e conseguenze si moltiplicano: “Essere vittima di violenza domestica durante la gestazione – spiega l’ostetrica – può portare a complicanze ostetrico-ginecologiche, tra cui accesso tardivo alle cure o discontinuità delle stesse, aborto spontaneo o ricorrente, iperemesi gravidica, rottura prematura delle membrane, placenta previa, distacco di placenta ed emorragia ante-partum e post-partum, aumentato tasso di ospedalizzazione, tocofobia (paura patologica del parto, ndr). Inoltre, il trauma diretto è la principale causa di morte materna in gravidanza e di esiti avversi feto-neonatali”. E, seppure non dovessero verificarsi danni fisici per mamma e bambino durante la gestazione, i pericoli potrebbero perpetuarsi anche dopo la nascita: “Il processo di vittimizzazione in puerperio, invece, può compromettere le competenze genitoriali dando luogo a disturbi della relazione mamma-neonato, che esitano in attaccamento insicuro, scarsa interazione e sentimenti di avversione, astio, collera, nonché impulso di scuotere, colpire e soffocare il bambino. Inoltre, si associa con una più alta probabilità a depressione post-partum e sindrome da stress post-traumatico, comportamento suicidario e problemi di allattamento”, assicura Vaccari.
Per questo, anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto il contributo dell’ostetrica nelle politiche di prevenzione riferibili alla violenza domestica. “A livello di prevenzione primaria, l’ostetrica verifica la presenza di fattori di rischio, comportamenti e stili di vita dannosi per la donna e il bambino e, attraverso l’educazione e l’alfabetizzazione sanitaria, contribuisce al rafforzamento delle loro risorse protettive. Per quanto concerne la prevenzione secondaria – continua Vaccari – invece, l’ostetrica ha la possibilità di intercettare segni e sintomi allertanti di violenza e possiede gli strumenti per creare rete con i servizi pubblici e del privato sociale, superando la frammentazione dei servizi e assicurando l’efficacia e la continuità della presa in carico. Infine, a livello di prevenzione terziaria, è coinvolta nei processi riabilitativi al fine di aiutare la famiglia a sviluppare un piano per ricostruire le proprie risorse difensive”.
Tuttavia, la reale prevalenza del fenomeno rimane sconosciuta: ancora oggi troppe donne non denunciano la propria condizione per paura di essere vittime di violenze ulteriori. “D’altro canto, c’è ancora una scarsa conoscenza da parte dei professionisti sanitari delle manifestazioni della violenza di genere, dei suoi segni e sintomi allertanti. Non di rado – aggiunge Vaccari – si è reticenti a sottoporre, di routine, tutte le donne a test di screening. Per questo – conclude l’ostetrica – tutti i professionisti sanitari devono condurre una più attenta osservazione della donna, dei suoi atteggiamenti e comportamenti, del suo benessere emotivo e delle dinamiche relazionali in cui è inserita, al fine di coglierne i segnali allertanti”.
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