Attala (Simit): “Sono difficili da trattare, con una mortalità che arriva al 26% nella prima revisione, e qualora si sbagli l’approccio iniziale, potrebbe aumentare progressivamente il rischio di mortalità”
Il 2% dei pazienti a cui viene impiantata una protesi contraggono un infezione, nonostante dopo l’intervento si proceda ad una terapia antibiotica almeno per i tre mesi successivi. “Le infezioni protesiche sono centinaia di migliaia ogni anno – dice Letizia Attala, dell’ospedale Santa Maria Annunziata di Firenze, intervenuta al XXII Congresso nazionale della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit), in corso a Firenze -. Il primo problema è che sono difficili da trattare, con una mortalità che arriva al 26% nella prima revisione, e qualora si sbagli l’approccio iniziale, potrebbe aumentare progressivamente il rischio di mortalità. L’altro aspetto è quello dei patogeni sempre più resistenti, che richiedono terapie antibiotiche complicate o non disponibili”.
“Generalmente l’impianto della protesi e il successivo decorso durano circa tre mesi, sottoponendo così il paziente a una terapia antibiotica di almeno 12 settimane – prosegue Attala – che si aggiungono agli anni pregressi di trattamenti già somministrati. Spesso il paziente viene colonizzato da germi resistenti agli antibiotici che provocano l’infezione anche dopo alcuni anni, come in alcuni casi rilevati nel nostro centro negli ultimi due mesi, in cui abbiamo visto pazienti con infezioni protesiche dovute a Klebsiella Pneumoniae – avverte – Serve pertanto un approccio multidisciplinare che veda lavorare assieme l’infettivologo e il chirurgo ortopedico. Il nostro ospedale, insieme a Savona, Vercelli, e Napoli, è uno dei quattro in Italia ad aver avviato un lavoro concertato per ogni reimpianto protesico. L’altra strada da seguire può essere quella di terapie alternative: in alcuni casi stiamo usando virus batteriofagi, sebbene restino alcuni ostacoli burocratici da superare”.
L’antibiotico-resistenza è un fenomeno ormai stanziale in Italia, che si associa a un significativo incremento della mortalità in ospedale, a un aumento dei costi di ospedalizzazione e dei farmaci. “La ricerca sta sviluppando nuove molecole, ma l’obiettivo non è quello di preparare nuovi antibiotici – evidenzia Marco Falcone, professore ordinario di Malattie infettive, Università Pisa e segretario Simit -. Si devono prevenire le infezioni con strategie di infection control che ne riducano l’impatto. La Simit è molto impegnata su questo fronte con progetti come Resistimit, che ha permesso di creare una rete per studiare le infezioni dovute a microorganismi antibiotico-resistenti e di identificare i fattori che si associano ad migliore sopravvivenza o ad aumentata mortalità utilizzando anche algoritmi di intelligenza artificiale”.
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