Le varianti genetiche associate alla malattia di Parkinson potrebbero manifestarsi in modo più frequente rispetto a quanto ipotizzato finora. A questa conclusione giunge uno studio pubblicato sulla rivista Brain
Le varianti genetiche associate alla malattia di Parkinson potrebbero manifestarsi in modo più frequente rispetto a quanto ipotizzato finora. A questa conclusione giunge uno studio, pubblicato sulla rivista Brain, condotto dagli scienziati della Parkinson’s Foundation, che hanno lavorato nell’ambito dell’indagine PD GENEration. Il team di ricerca, guidato dallo scienziato Roy Alcalay, ha analizzato i dati relativi a 15mila partecipanti con diagnosi confermata di Parkinson. L’analisi ha rivelato che il 13 per cento della coorte presenta una forma genetica della malattia.
La scoperta, secondo gli autori dello studio, potrebbe affinare la ricerca scientifica, includendo più pazienti nelle sperimentazioni di medicina di precisione. Stando a quanto emerge dall’indagine, il 7,7 per cento dei partecipanti era portatore di una mutazione genetica GBA1, il 2,1 e il 2,4 erano associati rispettivamente a mutazioni PRKN e LRRK2. Il tasso di positività sembrava più elevato in caso di esordio precoce, ascendenza etnica ad alto rischio o familiarità con il Parkinson. “Non ci aspettavamo risultati di questo genere – sottolinea Alcalay – né l’enorme interesse delle persone a iscriversi allo studio PD GENEration. Questi dati indicano che i pazienti sono interessati a ottenere informazioni sul proprio stato genetico, ed è ragionevole ipotizzare che nel prossimo futuro sarà molto semplice reclutare partecipanti per gli studi clinici”.
“Nei prossimi step – conclude Lola Cook, altra firma dell’articolo – cercheremo di arruolare 8mila partecipanti multietnici, per migliorare i risultati clinici degli individui con la malattia di Parkinson. Essere in grado di comprendere la genetica che le persone con questa condizione hanno in comune tra le diverse popolazioni potrebbe rivelare importanti indizi biologici sulla malattia, che potrebbero quindi portare allo sviluppo di nuovi trattamenti”.
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