Il semplice atto di etichettare delle persone in una categoria finisce col legarle a quella categoria, indipendentemente dalla rilevanza o dall’esistenza di differenze nei gruppi. Queste sono le conclusioni di un nuovo studio condotto dall’Università Ca’ Foscari Venezia e pubblicato sull’International Journal of Organization Theory & Behavior
Il semplice atto di etichettare delle persone in una categoria finisce col legarle a quella categoria, indipendentemente dalla rilevanza o dall’esistenza di differenze nei gruppi. Queste sono le conclusioni di un nuovo studio condotto da Muhammed Alperen Yasar, dottorando presso l’Università Ca’ Foscari Venezia e l’Università Paris I Pantheon-Sorbonne, che offre nuove prospettive sullo sviluppo di comportamenti discriminatori in organizzazioni e gruppi. Il lavoro, pubblicato dall’International Journal of Organization Theory & Behavior, punta a identificare i modi in cui emergono gli atteggiamenti discriminatori basata su caratteristiche osservabili; cioè quando e come tratti come l’etnia o il genere, sebbene irrilevanti per la situazione in questione, portino gli individui a presumere differenze tra loro.
Le conclusioni spiegano come possa generarsi nei luoghi di lavoro una cultura della discriminazione basata sull’etichettare in modo errato. La ricerca di Yasar presenta una nuova prospettiva: è il primo lavoro che indaga l’emergere della discriminazione in assenza di differenze preesistenti tra i gruppi. Non è necessaria, infatti, alcuna differenza iniziale nella popolazione per spiegare l’insorgere di comportamenti discriminatori. Come conclude l’articolo, la semplice presenza di individui che etichettano sulla base di tratti osservabili può essere sufficiente a portare alla creazione e alla persistenza della discriminazione.
Questa ricerca è parte del progetto EPOC (Economic Policies in Complex Environments), un programma europeo di ricerca e formazione dottorale finanziato dalla Commissione europea attraverso il programma di finanziamento Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA), nell’ambito di Horizon 2020. Lo studio ha utilizzato un “modello basato sugli agenti” (agent-based model) per simulare i comportamenti e le interazioni dei singoli individui, con l’obiettivo di capire come i processi a livello micro si traducano in schemi a livello macro. Inoltre, ha utilizzato un gioco evolutivo, nello specifico un gioco asimmetrico detto “falco-colomba”, per studiare la cultura organizzativa. In questo studio, il gioco rappresenta le lotte di potere all’interno di organizzazioni e gruppi.
Gli agenti possono mostrare diversi livelli di aggressività, che portano a risultati diversi negli scontri. Inoltre, gli agenti possiedono diversi livelli di potere, tra cui forza, informazioni e prestigio, che influenzano il loro comportamento e il modo in cui vengono trattati dagli altri. I risultati indicano che quando il costo della lotta è basso, ovvero non ci sono grossi svantaggi legati al conflitto, emerge una differenza culturale nell’aggressività, che può portare alla formazione di stereotipi. Come sottolinea Yasar, “inserire le persone in una categoria tende a creare e consolidare quella categoria”. Ad esempio, ritenere che le persone con gli occhi azzurri (un aspetto scelto casualmente per l’esempio) siano più deboli può indurre gli altri a pensare di avere un vantaggio fisico su di loro, indipendentemente dal fatto che il fatto sia vero o rilevante.
Se uno inizia a credere che una persona appartenga a una categoria, è possibile che altri si uniscano a questa convinzione, portando le persone con gli occhi azzurri a essere prese di mira ed etichettate come più deboli. La sua ricerca giunge alla stessa conclusione dell’esempio, mostrando come la discriminazione legata alla razza e al genere non debba necessariamente essere radicata in differenze rilevanti per influenzare le persone all’interno di gruppi e organizzazioni.
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