In un’intervista, due membri dell’Associazione Sarknos raccontano la loro storia: “Il primo ostacolo lo si affronta già per giungere ad una diagnosi corretta”
Se Valeria (il nome è di fantasia) è salva, lo deve solo a se stessa: è stata la sua caparbietà a condurla in tempi brevi ad una diagnosi di sarcoma, un tumore raro che deriva dalla trasformazione maligna delle cellule dei tessuti molli dell’organismo, come muscoli, tessuti connettivi, vasi sanguigni e linfatici, nervi, legamenti e tessuto adiposo. La storia di Giovanni ( anche il suo nome è di fantasia) è, invece, molto diversa: accogliere con estrema serenità le parole tranquillizzanti dei medici gli è costato un ritardo di un anno nella diagnosi di sarcoma, 12 mesi che se impiegati nel sottoporsi alle giuste terapie avrebbero potuto semplificare il suo percorso.
Ma andiamo con ordine, cominciando a raccontare la storia di Valeria, una donna del sud Italia che oggi ha 42 anni ed è madre di due bambine, la seconda venuta alla luce a tre anni dalla diagnosi di tumore. “Ricordo il giorno dei primi sintomi come se fosse ieri – racconta Valeria -. Ero alla guida della mia auto nuova quando, toccandomi la coscia sinistra, ho percepito un gonfiore, paragonabile ad una pallina di consistenza dura. D’istinto mi sono toccata anche a destra, alla ricerca di qualche cosa di simile. Ma non ho trovato nulla. Il primo pensiero è che la frizione della nuova vettura mi avesse provocato una sorta di infiammazione: una spiegazione azzardata, ma verosimile”, dice ancora la donna. Dopo due giorni quella pallina era ancora lì, sulla coscia sinistra e Valeria ha cominciato ad ossessionarsene. “Sono andata dal mio medico di famiglia che ha confermato la mia autodiagnosi: la conseguenza di un’infiammazione da sforzo. Non ha ritenuto opportuno prescrivermi un’ecografia. Ma io volevo vederci chiaro e così sono andata in un centro privato e l’ho ugualmente eseguita. Lo specialista che ha refertato l’ecografia mi ha detto che, nonostante, sembrasse una formazione del tutto benigna era meglio rimuoverla, in virtù della sua localizzazione”.
Queste parole hanno contribuito ad accrescere la preoccupazione di Valeria al punto tale che un’ora dopo era già in un altro centro diagnostico per sottoporsi ad una seconda ecografia. “Questa volta la diagnosi è stata di ematoma – racconta la donna -. E questa diagnosi mi ha convita ancor meno, tanto che ho chiesto immediatamente anche il parere di un mio amico ortopedico che mi ha consigliato una risonanza magnetica”. Ed ecco la terza diagnosi nel giro di 48 ore: fascite nodulare. Nonostante la chiarezza del referto, l’ortopedico, amico di Valeria, le consiglia di recarsi in un centro specializzato nella cura dei sarcomi al centro Italia. Anche qui nessuna risposta convincente. “Dopo due mesi ho deciso, in autonomia, di operarmi per rimuovere la formazione che, nel frattempo, continuava a crescere a vista d’occhio”, aggiunge la donna. Poco dopo, con il risultato della biopsia sul tessuto prelevato, è arrivata l’ora della verità: tumore di Triton. Se Valeria è arrivata ad una diagnosi in pochi mesi, dunque, è stato solo grazie alla sua ostinazione. “Essere caparbia ha rappresentato la mia vera fortuna: il tumore era già al terzo stadio. Ho dovuto sottopormi a chemio e radioterapia e poi ad un altro intervento”.
La storia di Giovanni, invece, mostra un’altra faccia della medaglia: le conseguenze di una diagnosi tardiva, non nel profondo sud, ma al centro Italia. La sua odissea è cominciata a fine 2021. “Ero in vacanza e scendendo delle scale a chiocciola, con in mano un bagaglio, ho percepito uno strappo alla coscia sinistra – racconta l’uomo -. Ma, lì per lì, ho dato poca importanza all’accaduto. Mi faceva male, ma ero convinto che il dolore sarebbe passato da sé”. E, invece, così non è stato. La gamba era sempre più dolente, livida e gonfia. Giovanni si è deciso a consultare un medico solo nel gennaio 2022: “Il gonfiore era talmente esteso che non potevo più piegare l’arto, né camminare. Al pronto soccorso, con un’ecografia e subito dopo una TAC, hanno accertato la presenza di emorragia e quindi effettuato il ricovero per una cura con antibiotici durata una decina di giorni fino a che il dolore fosse sparito”. Sono seguite altre due TAC, una immediatamente prima della dimissione, un’altra il mese successivo, entrambe con la medesima diagnosi di ematoma. “Un’ematoma che – racconta Giovanni – avrebbe dovuto pian piano scomparire. Grazie alla terapia antibiotica il dolore era effettivamente passato e, convinto che fosse un semplice ematoma, sono arrivato a Natale senza troppe preoccupazioni. Poi, il dolore è ricominciato, improvvisamente. Il 2 gennaio del 2023 ero di nuovo in pessime condizioni: non potevo nemmeno più poggiare la gamba a terra o piegarla. È a questo punto, al pronto soccorso di un altro ospedale, che pronunciano la diagnosi: sarcoma. Diagnosi poi confermata da lì a pochissimi giorni dalla biopsia programmata ed effettuata nello stesso ospedale”. Dai primi sintomi erano trascorsi 15 mesi.
Le storie di Valeria e Giovanni sono diverse ma, nonostante ciò, hanno alcuni tratti in comune. Tra questi uno è, senza dubbio, il più importante: l’Associazione Sarknos. “Ho abbracciato l’Associazione affinché la mia esperienza possa essere utile a chi vive o vivrà la medesima esperienza. Non è stato facile condividere con altri, e nemmeno parlarne durante questa intervista, della mia esperienza, ma mi sento in dovere di farlo”. Per Giovanni l’Associazione ha due ruoli fondamentali: “È una forma di autoaiuto – dice – che ci permette di trovare gli strumenti utili a sostenerci l’un l’altro. Ma è anche un mezzo per diffondere, pure tra i comuni cittadini, la conoscenza di questa malattia e l’importanza di una corretta diagnosi”.
Entrambi, ora, vivono pienamente il loro presente. “Ad ottobre scorso – racconta Valeria – mi hanno detto che i miei controlli potranno essere distanziati di un anno”. Un traguardo importante che, invece, Giovanni deve ancora conquistare: “Le mie visite sono serrate, ogni tre mesi. Ma per ora è un bene. Mi porto ancora addosso questa diagnosi tardiva, quella terribile sensazione che aver perso più di un anno prima di accedere alle giuste cure possa compromettere la mia prognosi”, conclude l’uomo.