Negli ultimi 25 anni la condizione dei malati di Alzheimer e dei caregiver che se ne occupano è rimasta sostanzialmente invariata. I tempi della diagnosi restano immutati, crescono i costi a carico dei familiari e cala l’accesso ai servizi del SSN. In questo scenario, diventa sempre più urgente la necessità di adeguare la rete di diagnosi e cura attraverso un piano concreto di investimenti, anche alla luce dell’eventuale prossimo arrivo di farmaci innovativi che richiedono un’organizzazione molto più puntuale e omogenea dei centri dedicati alla diagnosi e cura, anche per i pazienti che presentano segni di deterioramento cognitivo lieve. È quanto emerso nel corso dell’incontro “L’impatto economico e sociale della malattia di Alzheimer dopo la pandemia da Covid-19. Il contributo di analisi di un lungo percorso di ricerca, 4° rapporto Censis-AIMA”. L’evento si è svolto a Milano presso la Fondazione Prada come parte del progetto “Preserving the Brain: A Call to Action”. All’incontro hanno preso parte Patrizia Spadin, Presidente AIMA – Associazione Italiana Malattia di Alzheimer; Maria Concetta Vaccaro, Responsabile Ricerca Biomedica e Salute del Censis; Paolo Maria Rossini, Professore Ordinario di Neurologia e Direttore del Dipartimento Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele, Roma.
Secondo la ricerca Censis-Aima, è di sesso femminile il 62,2% dei malati di Alzheimer e oltre il 70% dei caregiver. Tra questi ultimi, uno su cinque riferisce di non ricevere alcun aiuto. Per il 42,3% dei familiari, negli ultimi anni, e in particolare dopo la pandemia, non si è riscontrata nessuna variazione significativa nell’offerta di servizi per le persone con Alzheimer, con il 29,8% che afferma che la situazione è sostanzialmente peggiorata. Inoltre, il costo medio annuo per paziente ha raggiunto i 72.000 euro, con un incremento in termini reali del 15% rispetto al 2015 della quota di costi diretti a carico delle famiglie. “Quest’anno AIMA compie quarant’anni e il sogno è che la nostra associazione possa prima o poi chiudere, perché significherebbe che la malattia di Alzheimer è stata finalmente sconfitta – commenta Patrizia Spadin -. Purtroppo, questo scenario è oggi un miraggio, perché – come dimostra la nostra ricerca – la strada da fare nel nostro paese è ancora molto lunga. Abbiamo l’urgenza che sia creata una regia centrale efficace, finanziamenti adeguati e una rete di cura degna di questo nome, omogenea e accessibile in tutto il territorio nazionale. La riorganizzazione e il potenziamento dei CDCD (Centri per il deterioramento cognitivo e le demenze) deve essere il punto di partenza obbligatorio. Dobbiamo fare in modo che si crei la competenza necessaria (equipe multidisciplinari e infrastrutture adeguate) per rendere possibile la diagnosi tempestiva e la diagnosi precoce, così da saper gestire in tutta Italia i malati di oggi e quelli di domani, per i quali si stanno aprendo concrete speranze di cura legate proprio alla precocità della diagnosi. È necessario anche migliorare la qualità dell’assistenza attraverso la formazione di caregiver professionali e operatori sanitari, senza imporre questo compito ai familiari, il cui unico ‘dovere’ è di sostenere il loro caro, per quanto possibile”, conclude Spadin.
“Rispetto all’indagine condotta nel 2015, uno dei dati più allarmanti è quello che riguarda la percentuale di pazienti seguiti da un CDCD: oggi sono solo il 37,7%, mentre erano il 56,6% nel 2015 e il 66,8% del 2006 – dice Maria Concetta Vaccaro -. Inoltre, risultano ancora aumentati i tempi per diagnosticare la malattia, passati da una media di 1,8 anni nel 2015 ai 2 anni di oggi. La nuova sfida è poi rappresentata dalle persone con deterioramento cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment): hanno un’età media di 71 anni, il 68,5% degli intervistati denuncia la presenza di difficoltà nella propria quotidianità, quasi due su tre indicano di aver bisogno di una qualche forma di sostegno, ancora garantita dalla famiglia, e l’88,2% guarda ai nuovi farmaci (finalmente disease modifying), come principale speranza per il futuro. Proprio a questa popolazione è stata dedicata la relazione del Professor Rossini che ha illustrato con chiarezza quanto si è prefisso il progetto Interceptor, finanziato dal Ministero della Salute: “la diagnosi precoce deve obbligatoriamente rivolgersi a un quadro intermedio tra invecchiamento fisiologico del cervello e demenza che viene definito Deficit Cognitivo Lieve (Mild Cognitive Impairment, MCI). Questa popolazione –che in Italia conta oltre 700mila persone – è costituita da soggetti che nei test cognitivi mostrano un lieve deficit misurabile, che tuttavia non inficia la piena efficacia e funzionalità in tutte le attività del vivere quotidiano e che quindi non configura un quadro di demenza. Purtroppo, quando seguiti nel tempo (es. 3 anni), il 30-40% di questa popolazione sviluppa una demenza vera e propria, per lo più di tipo Alzheimer”.
Come fare a identificare il prima possibile quel 30-40% di MCI che sono ad alto rischio di sviluppare demenza e distinguerli dagli altri che invece non svilupperanno mai queste forme? “Questo aspetto è di fondamentale importanza, ora che stanno per arrivare anche in Italia farmaci in grado di modificare l’andamento della malattia. I farmaci contro l’amiloide (la cui presenza nel cervello del paziente va pertanto dimostrata) costano molto, hanno importanti effetti collaterali e debbono essere riservati solo ed esclusivamente a MCI ad alto rischio di demenza. A risolvere questo problema, per conto del SSN, si è rivolto il progetto di ricerca nazionale Interceptor, finanziato nel 2018 da AIFA e Ministero della Salute, proprio con la finalità di valutare l’utilità di biomarcatori strumentali (es. Risonanza Magnetica, PET, Elettroencefalogramma, Genetica, Dosaggio nel liquor di amiloide e tau) da affiancare ai test neuropsicologici per identificare con il massimo dell’accuratezza i soggetti ad alto rischio. Il progetto si è svolto su tutto il territorio nazionale in 20 centri dal Piemonte alla Sicilia e ha coinvolto oltre 350 soggetti con MCI effettuando tutti i biomarcatori al tempo 0 e seguendo per tre anni i soggetti. In questo lasso di tempo circa il 30% dei 350 hanno sviluppato una forma di demenza, per lo più di Alzheimer. Nel corso di un convegno che si terrà il 17 febbraio all’Istituto Superiore di Sanità a Roma saranno presentati i primi importanti risultati dello studio” conclude Rossini.
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