Quattro anni fa il naufragio e la morte di 368 persone diede il via all’operazione Mare Nostrum: tra critiche e apertura, l’Italia ancora in prima linea nel salvataggio e nell’accoglienza. Il medico protagonista di ‘Fuocoammare’: «La realtà degli sbarchi edulcorata dai media. Necessario abbattere pregiudizi»
Ventisei anni al fronte. Un fronte che si chiama Lampedusa, e che ha la sua roccaforte presso la banchina del Molo Favaloro: punto di arrivo di oltre 300mila persone, un miraggio per tante, troppe anime che non ce l’hanno fatta. Per il dottor Pietro Bartolo, Responsabile Presidio Medico Lampedusa e protagonista del film documentario ‘Fuocoammare’, l’accoglienza e le cure ai migranti sono ormai pane quotidiano.
«A Lampedusa ci occupiamo del fenomeno dell’immigrazione approcciandolo non solo da un punto di vista sanitario ma anche umano, che è la cosa più importante. Un approccio che a noi non costa niente, e che per loro invece significa tanto. Sono reduci da torture e sofferenze immani, che i media, con i loro tempi ristretti, non riescono a raccontare e far comprendere fino in fondo. Ho battuto un record, un record infelice: sono il medico che ha fatto più ispezioni cadaveriche al mondo. Quelle che gestiamo sono situazioni particolarmente difficili. I gommoni utilizzati dai trafficanti sono in realtà canotti, gli basta un buco o un’onda per affondare».
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E poi il ricordo di un anniversario importante, una data in cui doveva cambiare tutto ma in sostanza non cambiò niente. Anzi. «Dal 3 ottobre 2013, anniversario della strage nel canale di Lampedusa l’Italia con grande civiltà ha attuato un giro di vite e ha messo in campo l’operazione Mare Nostrum per evitare il ripetersi di simili tragedie. Operazione in un primo momento molto criticata ma poi condivisa dal resto d’Europa attraverso altre operazioni analoghe. Ma proprio da quel giorno, paradossalmente, sono aumentati i naufragi e i morti. Questo succede perché i trafficanti approfittando della presenza dei soccorsi a poche miglia dalla costa libica hanno cominciato a usare questi pericolosissimi gommoni. Siamo quindi davanti a malattie “nuove” – la malattia dei gommoni, l’ipotermia, la disidratazione, la scabbia (che è facilmente curabile) – ma la più grave malattia che siamo costretti ad affrontare è la loro devastazione psichica. Queste persone, come sapete, scappano da guerre, torture, da persecuzioni religiose e di altro tipo, scappano nel deserto – dove ne muoiono tantissimi – poi arrivano in Libia vale a dire nell’inferno più totale dove le donne vengono violentate e gli uomini torturati».
E come possono i nuovi medici, che si approcciano per la prima volta a questo fenomeno, riuscire a gestirlo? «Attraverso corsi di formazione ad hoc, che mi hanno subito trovato disponibile a condividere quello che ho appreso in questi 25 anni. Per approcciarsi correttamente al fenomeno bisogna avere le competenze più disparate, non solo strettamente mediche, perché queste persone non portano malattie gravi o preoccupanti per il territorio nazionale, ma un profondo disagio e stress psicologico, quello sì. Inoltre, è compito del medico intervenire affinché vengano eliminate quelle ostilità così diffuse dovute alla cattiva informazione e al terrorismo mediatico ad opera di alcuni politici. Le persone non sono cattive, neanche quelle che alzano barricate o quelle che fabbricano molotov, sono state semplicemente mal informate e manipolate. E il nostro compito è cercare con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione (io l’ho fatto con il film “Fuocoammare”, e con il libro “Lacrime di sale”) di far cadere questi pregiudizi».