«Abbiamo abbinato due tecniche diverse per superare l’incompatibilità. Grande dimostrazione di efficienza da parte dei due ospedali romani e delle aziende regionali». Con queste parole il prof. Citterio, alla guida dell’equipe del Gemelli, esprime la sua soddisfazione a Sanità Informazione
Donare un organo da vivente è una scelta molto coraggiosa, che deve essere fatta in modo libero, consapevole e informato. Nel caso del trapianto di rene, può succedere che la coppia donatore-ricevente sia incompatibile. Questo è quello che è successo nei due ospedali romani Gemelli e San Camillo, dove sono stati eseguiti con successo due interventi su coppie incompatibili grazie ad una tecnica d’avanguardia impiegata per la prima volta in Italia. Ne abbiamo parlato con il Prof. Citterio, Responsabile del Centro trapianti di Rene dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma che ha supervisionato la complessa e delicata operazione chirurgica.
Professore, lei ha guidato l’equipe che è riuscita ad effettuare un trapianto di rene con due tecniche alternative. Ci può raccontare, in parole semplici, di cosa si trattato?
«Eravamo di fronte a due coppie incompatibili per un trapianto di rene da vivente: in entrambe, il ricevente presentava degli anticorpi “contro” le caratteristiche genetiche del proprio donatore (anticorpi anti-HLA donatore specifici); un problema che abbiamo risolto “incrociando” le due coppie. In questo modo però la coppia “riformata” era nuovamente incompatibile per la presenza di anticorpi contro il gruppo sanguigno del donatore (trapianto AB0 incompatibile). Tuttavia, l’incompatibilità del gruppo sanguigno è un ostacolo minore rispetto a all’incompatibilità HLA; per cui, in questo caso, è stato possibile “rimuovere” e “ripulire” il sangue del paziente ricevente dagli anticorpi del donatore, in modo da evitare reazioni di rigetto. Abbiamo dunque, per la prima volta in Italia, abbinato due diverse tecniche per risolvere una complessa rete di incompatibilità: il trapianto crociato e la desensibilizzazione ABO. Finora le due tecniche sono state sempre considerate “alternative” e “non complementari”. Noi siamo riusciti a sfruttarle entrambe, questi due trapianti non sarebbero stati possibili in modo diverso. A tre mesi di distanza i due donatori e i due riceventi godono di ottima salute».
Lei è un esperto di trapianto di rene da vivente. Quali sono i rischi per il donatore ed i vantaggi per il ricevente?
«Il “vantaggio” per il donatore è solo quello di far del bene alla persona a cui dona, che spesso è un familiare. Non ha nessun vantaggio fisico, anzi, subisce un intervento chirurgico di cui non ha bisogno. Per questo, deve essere una persona motivata e ben informata su quello che sta facendo. Ѐ un grandissimo atto di generosità. Il grande vantaggio per il ricevente è di tornare ad una vita assolutamente normale».
Ci sono rischi per il donatore?
«Il “rischio” a cui si espone il donatore è rappresentato dal fatto che vivrà con un rene solo: questo può diventare un problema nel caso in cui avesse un incidente stradale con lesione del rene o se si sviluppa un tumore nell’unico rene che è rimasto. Per questo, consigliamo di effettuare un’ecografia di controllo annuale: la diagnosi precoce e tempestiva ci permette di intervenire senza togliere il rene. Secondo i dati in nostro possesso, posso dire che i rischi sono limitati a 30 casi ogni 10mila trapianti eseguiti».
E i benefici per il ricevente?
«Sono benefici importanti, perché l’alternativa è quella di vivere in dialisi, il trattamento che provvede a filtrare dal sangue acqua e sostanze tossiche. La dialisi però non è una condizione fisiologica ed alterna fasi di intossicazione-disintossicazione così rapide che a lungo andare comportano un grosso stress per l’organismo, in particolare per il cuore. Le complicazioni cardiache sono un pericolo maggiore rispetto a quelle del trapianto. Inoltre, è inutile dire che la qualità di vita migliora sensibilmente: può lavorare, avere figli, fare quel che vuole, insomma “ricominciare” a condurre una vita perfettamente normale».
Ѐ la prima volta che in Italia si effettua un intervento così complicato e delicato. Oltre alla competenza e professionalità dei medici quali sono gli altri fattori che permettono di arrivare ad un risultato così importante?
«Le capacità, la preparazione e soprattutto l’esperienza ci hanno permesso di procedere anche qui in Italia con una tecnica che è già utilizzata in Inghilterra e Olanda. Finora, per la medicina italiana l’incompatibilità ABO era un ostacolo al trapianto crociato che invece noi siamo riusciti a portare a buon fine». Tutto ciò è stato reso possibile dalla costante e ben coordinata collaborazione tra la nostra equipe, il San Camillo di Roma – dove è stato eseguito l’altro trapianto – il Centro Regionale Trapianti, l’Unità Operativa di Emotrasfusione del Gemelli, il laboratorio di Tipizzazione Tissutale HLA e Immunologia dei Trapianti del Centro Regionale Trapianti e l’ARES 118. Gli interventi, infatti, sono partiti contemporaneamente ed in brevissimo tempo gli organi sono stati trasferiti da un ospedale all’altro: tutto ha funzionato perfettamente, non ci sono stati tempi morti, attese né problemi. Devo riconoscere che è stata una dimostrazione di grande efficienza da parte dei due ospedali e delle aziende regionali».
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Sappiamo che la formazione dei giovani infermieri è fondamentale nell’attività trapiantologica. In linea di massima, le università italiane forniscono adeguate competenze tecnico-professionali e riescono a competere a livello internazionale?
«Sì, è estremamente importante formare professionisti dal punto di vista del coordinamento infermieristico di tutta l’attività trapiantologica. Io direi che le università italiane offrono una formazione valida ed adeguata per quel che riguarda la capacità organizzativa. Abbiamo sicuramente ancora molto da imparare da gran parte dei centri esteri dove c’è un maggior impegno e interesse da parte delle istituzioni ad innalzare gli standard qualitativi del sistema di istruzione e di formazione».
A un giovane medico che si affaccia alla professione oggi e qui in Italia, lei cosa si sente di dire?
«La medicina sta diventando sempre più specialistica: la specializzazione è una tappa formativa obbligatoria per poter lavorare all’interno del sistema sanitario nazionale. Io penso che uno studente debba capire quale sia l’interesse che ha e seguire la vocazione fino in fondo, individuando le strutture formative adatte e all’altezza, non fermandosi di fronte a opportunità di breve periodo».