Ejaz Ahmad, giornalista pakistano e mediatore interculturale, è intervenuto al convegno “Migration: turning challenges into opportunities” organizzato da Dandelion e OIS Osservatorio Internazionale per la Salute Onlus presso la sede della Commissione UE a Roma: «Dalle medicine a base di alcol ai demoni dell’Islam, ecco le difficoltà che gli immigrati riscontrano negli ospedali e con i camici bianchi». Intanto, per aiutare i medici a conoscere l’identità culturale dei pazienti stranieri, nasce l’applicazione InterHealth App
«Le prime due cose che mi hanno chiesto quando sono arrivato in Italia sono state il cognome e la data di nascita. Beh, in Pakistan non avevamo né l’uno né l’altro». È la testimonianza di Ejaz Ahmad, giornalista pakistano e mediatore interculturale in Italia da 30 anni. Ed è solo uno degli esempi delle profonde differenze che emergono tra due Paesi lontani, geograficamente e culturalmente, come l’Italia ed il Pakistan. Differenze che inevitabilmente si riscontrano anche nel rapporto tra medici e pazienti immigrati.
«Un paziente musulmano non assumerà mai medicinali in cui è presente alcol o grasso di maiale», spiega ai nostri microfoni a margine del convegno “Migration: turning challenges into opportunities” organizzato da Dandelion e OIS Osservatorio Internazionale per la Salute Onlus. «Lo stesso discorso vale, ad esempio, per le supposte: quando gli spiego come vanno prese, generalmente le buttano via».
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Ma non sono solo le medicine il problema; l’identità culturale di un paziente può influire anche sul rapporto che avrà con il medico: «In Pakistan – spiega Ahmad – si insegna ai bambini a non guardare mai in faccia gli insegnanti, i genitori e l’autorità, ma di parlare con loro guardando per terra. Dunque, quando un paziente non guarda il proprio medico è semplicemente perché ha rispetto dell’autorità, ma i medici italiani non lo sanno e non capiscono questo comportamento. È una piccola differenza ma può creare molti conflitti».
Lo stesso concetto di salute, d’altro canto, è diverso: la prevenzione non esiste «perché la sanità non è pubblica» e si va in ospedale «solo quando si è malati. Qualche giorno fa – racconta Ejaz Ahmad – ho incontrato 80 immigrati. Nonostante tutti potessero farne richiesta, solo due avevano la tessera sanitaria, proprio perché il rapporto che hanno con la salute è pessimo. Per non parlare della psicologia, nata in Europa e non efficace per gli immigrati di cultura diversa. Molte malattie e demoni, come i Jinn dell’Islam (figure soprannaturali della cultura musulmana, ndr) non sono conosciuti dagli psicologi italiani, e per questo per gli immigrati bisognerebbe sviluppare l’etnopsichiatria».
Cosa fare, allora, per avvicinare due mondi così distanti e per abbattere quel muro che impedisce a chi sta da un lato di capire e comunicare con chi sta dall’altro? «Con gli immigrati non bisogna lavorare solo con le medicine e i medici – risponde Ahmad -, ma bisogna conoscere la loro identità culturale. E per fare questo i medici devono uscire dagli ospedali, andare nelle comunità straniere presenti in Italia, parlare con loro, coinvolgerle e cercare di capirle; d’altro canto, bisogna anche spiegare agli immigrati come sono fatti i medici o gli infermieri italiani, quali sono le loro problematiche e le loro esigenze. Deve essere un rapporto reciproco, fluido, quello che si instaura tra medici ed operatori italiani e pazienti stranieri».
Per aiutare i medici a comprendere meglio il modello culturale di riferimento dei loro pazienti, intanto, è nata IHApp, o InterHealth App, un’applicazione che, tramite una serie di domande, consente di tratteggiare il sistema di credenze del paziente relativo alla salute e alla malattia, spesso radicalmente diverso da quello occidentale. «L’applicazione – spiega Louis Ferrini, uno dei creatori del progetto – è stata sviluppata partendo da una teoria di Chrisman che individua tre tipi di culture: la personalistica, la naturalistica e quella dei germi. Il nostro progetto non insegna come curare il paziente, ma serve a sensibilizzare i medici e i professionisti sanitari e far loro capire che il paziente andrebbe trattato in modo diverso in base alla sua cultura. Se un immigrato credo che il responsabile della sua malattia è un’entità superiore, è molto difficile che accetti di assumere le medicine prescritte dal medico che gli permetterebbero di guarire, perché per lui l’entità superiore ha deciso che morirà e non farà niente per impedirlo. Chi è legato alla cultura naturalistica, poi, crede nel bilanciamento del corpo, quindi al caldo e al freddo, allo yin e allo yang, ad esempio. E il medico deve sapere come affrontarlo e cercare di trovare un modo per curarlo con le nostre conoscenze scientifiche», conclude. La versione beta dell’applicazione è disponibile gratuitamente on line ed è aperta a suggerimenti, feedback e proposte per renderla sempre più efficace ed utile a tutti i professionisti della sanità.