Salute 16 Aprile 2018 09:48

Da Milano alla California, la sfida del neuroscienziato Monti: «Con gli ultrasuoni provo a far ripartire il cervello delle persone in coma»

Il professore ha messo a punto una tecnica, LIFUP, per stimolare il talamo senza bucare il cranio. Primi test sui pazienti incoraggianti. Lunedì 16 sarà al Teatro Eliseo di Roma per l’incontro “Il mistero della coscienza: tecnologia e futuro”

Da Milano alla California, la sfida del neuroscienziato Monti: «Con gli ultrasuoni provo a far ripartire il cervello delle persone in coma»

Da oltre dieci anni sta lavorando su una tecnica che potrebbe aiutare le persone in coma, in stato vegetativo, o in stato di minima coscienza a recuperare. Lui, il professor Martin Monti, laurea alla Bocconi e Phd a Princeton, è un neuroscienziato della Ucla – Università della California di Los Angeles le cui pubblicazioni hanno fatto il giro del mondo. Soprattutto da quando con la sua équipe ha messo a punto un test molto innovativo per comprendere quanta capacità cerebrale sussista in pazienti in stato vegetativo e stato di minima coscienza. Per questo fu invitato nel 2013 a visitare in Israele l’ex premier Ariel Sharon, che dal 2007 si trovava in un grave stato di disordine della coscienza. Non si definisce un ‘cervello in fuga’, perché quella di andare all’estero è stata una scelta volontaria. Ora Monti è impegnato in un innovativo progetto, il LIFUP, una tecnica rivoluzionaria e non invasiva, per cercare di aiutare a far ‘ripartire’ il cervello di pazienti in coma, ‘massaggiando’ con ultrasuoni focalizzati a bassa intensità. Il 16 aprile sarà a Roma, al Teatro Eliseo, per l’incontro “Il mistero della coscienza: tecnologia e futuro” nell’ambito del ciclo “La scienza e noi”.

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Professore, lei è stato definito ‘lo scienziato che riaccende i cervelli’. Quando ha iniziato a lavorare sui pazienti in coma o in stato vegetativo?

«Sui pazienti con disordini della coscienza ci lavoro dal 2006. Stiamo parlando ormai di oltre una decina di anni. Sicuramente sono uno scienziato che ci sta provando. L’idea non è proprio quella di riaccendere un cervello ma di aiutarlo ad esprimere la potenzialità che gli è rimasta dandogli una piccola iniezione di energia in un posto particolare, il talamo».

Lei ha messo a punto un test di capacità cerebrale. Come funziona?

«La prima parte della mia carriera era volta a capire, quando un paziente arriva all’ospedale, se è cosciente o meno».

Come si fa?

«Oggi per capire se un paziente è in condizione di disordine della coscienza si usa il metodo comportamentale: si chiede al paziente di muovere un piede, una mano, di guardare da una parte, o cose del genere. Se il paziente le può fare, concludiamo che il paziente è cosciente. Se il paziente non lo può fare viene classificato in uno stato vegetativo, non cosciente. Ma immagini questa circostanza: se il paziente fosse cosciente ma non fosse in grado di capire il linguaggio o se il paziente fosse cosciente ma non potesse muoversi a causa del danno cerebrale che non gli consente di produrre un output, come si fa a capire se il paziente è cosciente?».

Non si sa, ma il suo metodo dovrebbe servire proprio a questo…

«È un modo per guardare direttamente nel cervello senza che il paziente debba compiere movimento. È un po’ come chiedere a qualcuno di ‘muovere il cervello’ invece di muovere una mano. Semplicemente chiediamo al paziente invece di muovere un piede o battere le ciglia, di immaginare certe cose specifiche che sono facili da immaginare. Noi in genere chiediamo di immaginare di giocare a tennis non perché il tennis sia speciale ma è facile da immaginare. Se mettessi lei in una macchina di risonanza magnetica e le chiedessi di immaginare di giocare a tennis, si accenderebbe una parte del cervello che serve a pianificare movimenti complessi. Tutto questo ci rende più facile il compito di capire se qualcuno sia cosciente nonostante il fatto che possa avere altri problemi che gli impediscano di mostrarlo quando facciamo test di tipo comportamentale dove qualcuno deve rispondere con un movimento, con una parola».

Come funziona il suo metodo innovativo per cercare di ‘svegliare’ i pazienti?

«Il suo acronimo è in genere LIFUP – Low Intensity Focused Ultrasound Pulsation, in italiano ‘Pulsazioni di ultrasuoni focalizzati a bassa intensità’. La tecnologia degli ultrasuoni è ben validata, ben conosciuta, vengono fatti ultrasuoni in tutto il mondo. La nostra tecnologia è leggermente diversa: invece di emettere una larga banda di ultrasuoni focalizziamo gli ultrasuoni in una parte specifica del cervello. È un po’ come una lente: realizziamo una piccola pallina di energia, o meglio di vibrazioni e riusciamo a iniettare ultrasuoni in parti specifiche del cervello a seconda di come orientiamo questo apparecchio. Questo ci consente di ‘massaggiare’ alcuni tessuti del cervello molto profondi, nel centro del cervello, difficili da raggiungere in altro modo. Per questo si dice ‘riaccendere il cervello’. Stiamo cercando di riattivare alcuni neuroni che sappiamo avere un rapporto molto intimo con la coscienza. Per essere chiari non è che abbiamo tirato giù da un albero un’idea. Si fa già questo tipo di intervento ma chirurgicamente. Questa è la Deep brain stimulation: si fa un buco nel cranio e si cala un elettrodo che penetra nel cervello fino al talamo e si inietta in questo modo energia. Noi stiamo cercando di farlo senza intervento chirurgico».

Che risultati ci sono finora?

«Adesso ne abbiamo già pubblicato uno che è stato di grande successo. Un paziente aveva recuperato già il giorno dopo. Da allora abbiamo avuto altri quattro pazienti e ogni volta che siamo riusciti a fare la stimolazione correttamente i pazienti stavano meglio il giorno dopo e nelle settimane seguenti. Bisogna specificare però che si tratta di pazienti acuti, quindi è perfettamente possibile, lo abbiamo scritto a chiare lettere, che questo sia tutto un caso, che siamo stati solo molti fortunati. Certo, più pazienti recuperano e più ci diventa difficile dire che sia una pura coincidenza. Tuttavia, non siamo ancora in grado di provare clinicamente che è il nostro intervento a provocare questi risultati».

Naturalmente se i dati e le evidenze scientifiche saranno dalla vostra parte, ci saranno anche dei risvolti etici importanti…

«Esattamente. Ad esempio per la Deep brain stimulation c’è stato un trial clinico in cui hanno reclutato 40 pazienti e su 40, solo 5 potevano ricevere la stimolazione. Di queste cinque soltanto tre l’hanno ricevuta, e di questi a uno l’hanno dovuto togliere perché ha fatto infezione. Qualche recupero c’è stato in entrambi, ma nessun paziente ha recuperato l’abilità di comunicare consistentemente. Avere la possibilità di uno strumento non invasivo che può essere utilizzato magari a casa del paziente, in un ospedale, non nel contesto di una sala operatoria, potrebbe aprire ad un trattamento più applicabile. Possiamo raggiungere più pazienti. Dovremo capire chi ha potenzialità per rispondere e chi non ce l’ha».

Però può essere un’arma in più per le persone in queste condizioni?

«Esiste così poco per i pazienti in queste condizioni che qualsiasi approccio funzionale dimostrato scientificamente sarà di grande aiuto».

Lei lavora in California. Ma la tentazione di rientrare c’è o si trova bene in California?

«Io amo tanto l’Italia però le devo confessare che a me gli Stati Uniti e anche l’Inghilterra dove sono stato per un po’ di anni hanno dato tante opportunità. Magari le avrei trovate in modi diversi anche in Italia. Però non sono fuggito, le opportunità che ho avuto mi hanno portato all’estero. Ogni tanto ci penso però devo dire che la California è bellissima».

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Si può dire che è un cervello in fuga volontaria…

«Ho semplicemente ricevuto delle occasioni a cui non ho potuto dire di no. Del resto nel campo dei disordini della coscienza in Italia abbiamo degli scienziati fantastici. A Milano ci sono almeno due centri di grande eccellenza, il Besta e il Sacco dove c’è un mio collega scienziato, Marcello Massimini, che fa delle cose fantastiche, è conosciuto in tutto il mondo. A Roma al Santa Lucia c’è un ottimo gruppo che si occupa di queste cose. In Italia abbiamo una tradizione eccellente, però le mie occasioni sono state all’estero».

È vero che è stato chiamato per il caso di Ariel Sharon?

«Circa un anno prima che morisse mi hanno chiamato per fare uno scan cerebrale. Lo abbiamo fatto e devo dire che c’erano segni di risposta cerebrale a livello della risonanza magnetica, ma nessuno di questi segni mostrava chiaramente uno stato di coscienza. Non c’era neanche una chiara risposta di tipo comportamentale però c’erano delle piccole risposte sospette. Un caso affascinante ma che mostra la difficoltà di utilizzare queste tecnologie nel campo clinico».

 

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