L’ex Senatrice PD descrive la figura dell’infermiere di famiglia elencandone ruoli e benefici e auspica il riconoscimento delle specializzazioni infermieristiche
E se gli infermieri copiassero il modello organizzativo e formativo dei medici? Se si distinguessero in infermieri di famiglia ed infermieri specialisti? È quanto auspica Annalisa Silvestro, infermiera, ex Presidente della Federazione Nazionale Collegi IPASVI (prima che diventasse FNOPI, Federazione Nazionale Ordini delle Professioni Infermieristiche) e Senatrice PD nella scorsa legislatura.
Ma di fatto, l’infermiere di famiglia esiste già, «anche se assume nomi diversi nelle varie Regioni d’Italia – spiega la Silvestro ai nostri microfoni -: in Emilia Romagna si parla di infermiere di famiglia, in Friuli Venezia Giulia di infermiere di comunità, e da qualche altra parte di infermiere domiciliare, creando molta confusione ed ostacolando la nascita di un percorso formativo omogeneo su tutto il territorio nazionale».
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Definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come un infermiere che svolge le sue funzioni assistenziali nel contesto delle famiglie e nei loro luoghi di vita, quella dell’infermiere di famiglia è una figura che «dovrebbe farsi carico – a detta della Silvestro – dei bisogni di salute e delle prestazioni che servono a tutti i componenti di una famiglia, cercando quindi di intervenire da un punto di vista assistenziale in un ambito di integrazione relazionale, affettivo ed emozionale come quello che c’è all’interno di una famiglia. Una figura quindi molto bella – prosegue – che riuscirebbe a fornire le risposte di cui le famiglie, soprattutto con persone con patologie croniche o degenerative, hanno bisogno».
Eppure l’infermiere di famiglia non è ancora riuscito a «superare una certa stasi nell’ordinamento giuridico e professionale – continua la dottoressa -. In Italia un’assistenza infermieristica sul territorio e domiciliare esiste, anche se purtroppo in molte Regioni del Sud è molto frammentata; ma le specializzazioni infermieristiche, che concretamente esistono, non sono formalmente riconosciute. Bisognerebbe quindi fare in modo che l’infermiere di famiglia sia presente in maniera omogenea e diffusa, anche perché – aggiunge – per come è impostato adesso il medico di famiglia è impossibile che riesca a farsi carico dei problemi dei suoi assistiti in maniera olistica, globale e completa».
Ma come rendere più omogenei il ruolo e la presenza dell’infermiere di famiglia in tutta Italia? Intervenendo sul percorso formativo di chi vuole intraprendere questa strada. «Oggi per diventare infermiere di famiglia– spiega Annalisa Silvestro – bisogna seguire un percorso formativo ad hoc che si impianta sulla formazione che l’infermiere acquisisce nei tre anni del corso di laurea. Noi auspichiamo che la laurea triennale diventi la base su cui gli infermieri possano poggiare specializzazioni e approfondimenti delle loro competenze rispetto ad alcuni ambiti di esercizio o a dei bisogni particolari delle persone. Tant’è che oggi molti definiscono il neolaureato in infermieristica un infermiere generalista, in grado quindi di posizionarsi nelle diverse situazioni assistenziali. Però, come i medici specialisti approfondiscono un aspetto, così dovrebbe essere anche per gli infermieri. E quindi – prosegue – l’infermiere di famiglia sarà in grado di rilevare i bisogni evidenti e potenziali, le necessità dei componenti della famiglia e di dar vita ad interventi collegati con quelli del medico di medicina generale; l’infermiere specializzato nelle situazioni d’emergenza e urgenza invece, per esempio, si occuperà di ciò che riguarda le acuzie, la criticità vitale, eccetera. E per fare questo dovrà acquisire ulteriori competenze».
Commenta, poi, il passaggio da Collegi a Ordini degli Infermieri introdotto dalla Legge Lorenzin, un passaggio motivato proprio dal percorso formativo della professione: «L’evoluzione è ineludibile, visto che anticamente si aggregavano in Ordini le professioni laureate e in Collegi le professioni diplomate. Poiché da oltre 20 anni gli infermieri si laureano, lo Stato è stato quasi costretto a modificarne l’organizzazione, riconoscendo – conclude – indubbiamente un prestigio superiore che gli infermieri hanno raggiunto».