«All’estero ricerca al top anche grazie a fondi e supporti che in Italia mancano. Difficile restare qui: ottime capacità e buone idee non bastano». L’intervista alla dottoressa Mazzuca a margine della cerimonia di premiazione alla Sapienza
Il Premio Roma si celebra ogni anno con una suggestiva cerimonia che si svolge nell’Aula Magna del Rettorato della Sapienza Università di Roma. Si propone come un osservatorio di cultura a orizzonte nazionale e internazionale, in un’identificazione con la città di Roma.
Quest’anno, oltre alle produzioni editoriali e con l’obiettivo di allargare i confini culturali dell’iniziativa, sono stati assegnati speciali riconoscimenti: al magistrato Nicola Gratteri per la lotta alla criminalità organizzata; ad Alberto Angela il Premio per la Promozione delle meraviglie italiane nel mondo; Andrea Riccardi è stato premiato in occasione del 50° anniversario di fondazione della Comunità di Sant’Egidio; Vincenzo Barone – Direttore della Normale di Pisa – ha ritirato il Premio Roma Urbs Universalis mentre la ricercatrice ed oncologa Federica Mazzuca il Premio per la ricerca in campo oncologico “Irma Feroci Milesi”. A tutti i vincitori è stata consegnata una scultura in bronzo raffigurante la Lupa capitolina.
La dottoressa Federica Mazzuca – ricercatore in Oncologia Medica presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria Sant’Andrea di Roma – ha raggiunto risultati significativi nella lotta contro il cancro. La sua ricerca scientifica spazia dall’identificazione di nuove forme di trattamento delle neoplasie al riconoscimento di nuovi meccanismi di resistenza a terapie – come l’immunoterapia – fino allo studio del microbiota e della medicina di genere. A Sanità Informazione spiega il suo modus operandi: privilegiare il rapporto umano con i malati, instaurare un rapporto empatico in grado di motivarli e supportarli al meglio nel percorso di cura.
Una serata importante: il premio Roma per la ricerca in campo oncologico “Irma Feroci Milesi” va a lei
«Questo è un premio unico perché è il ricordo di una persona molto particolare, io non ho avuto il privilegio di conoscerla ma chi l’ha conosciuta me la riferisce come tale: una donna di grande energia, capacità ed entusiasmi. E ci vuole tanta energia e tanto entusiasmo anche per fare l’attività di ricerca, perché chiaramente vede gioie, vittorie ma anche sconfitte e per questo deve sempre scorgere un orizzonte lontano per alimentare ogni giorno la voglia di andare avanti nel nostro lavoro quotidiano».
La ricerca scientifica in Italia subisce dei rallentamenti per mancanza di fondi e molti medici sono costretti a spostarsi all’estero. Che cosa pensa di questo?
«Torno da una riunione per l’Asco (American Society Clinical Oncology) il nostro mondiale di oncologia medica che si è tenuto la settimana scorsa a Chicago, dove tutto il mondo discute sul presente e sul futuro della lotta al cancro. In questa occasione, ho avuto il piacere di presentare i miei dati su una ricerca scientifica nei pazienti oncologici. Chiaramente, ci si confronta con un mondo che ha delle grandissime potenzialità, nel quale ci sono anche però una serie di fondi e di supporti completamente diversi dall’Italia e dove c’è un’attenzione alla ricerca scientifica che nel nostro Paese, in questo momento storico, non possiamo dire di avere. È chiaro che chi non parte è perché ha dei grandi legami qui o ha la voglia di poter dimostrare che anche noi possiamo riuscire a far bene, perché poi le idee e le impostazioni sono spesso le nostre e i confronti nelle tavole nazionali ed internazionali sono sempre per noi molto gratificanti. Per cui davvero è difficile decidere di non andar via, bisogna avere una reale motivazione per cercare di far meglio in Italia».
Umanizzare le cure: ambienti ospedalieri vivibili, a misura di paziente, soprattutto in campo oncologico, possono migliorare l’approccio terapeutico alle cure?
«Sono diversi anni che lavoro come oncologa e ho sempre privilegiato il rapporto personale con i pazienti, proprio grazie all’insegnamento che mi è stato dato direttamente da uno di loro. All’ingresso di una visita ambulatoriale mi sono alzata, gli sono andata incontro, gli ho dato la mano, ho sorriso per salutarlo e lui mi ha detto: “Forse ho sbagliato ambulatorio! Non sono mai stato accolto in questo modo, nessuno ha mai prestato un minimo di attenzione ai miei sentimenti o mi ha mai fatto un sorriso”. Ecco, questa è una cosa fondamentale: io stasera porto qui tutti i miei pazienti: per prima cosa, perché grazie a loro posso far ricerca. Si affidano ai percorsi che propongo – non è sempre vero che si applicano dei protocolli clinici e non si abbia poi la possibilità di personalizzarli -. Li ringrazio, perché è la loro fiducia nei miei confronti che mi ha permesso di ricevere questo importante premio, che mi ha permesso di andare al mondiale di oncologia con dei dati nostri e che mi permette di ogni giorno di essere gratificata. Ogni volta che diamo qualcosa ad un paziente oncologico abbiamo un ritorno enorme e questa è per noi fondamentale».