Il medico si è occupato di gestione sanitaria per l’ONG Medici con l’Africa CUAMM in Etiopia. «Fondamentale portare in questi paesi progetti sostenibili insieme ai governi locali»
È tornato da 20 giorni dall’Etiopia, dove ha prestato servizio come cooperante e capo progetto per Medici con l’Africa Cuamm (Collegio universitario aspiranti medici missionari) la prima ONG sanitaria riconosciuta in Italia e la più grande organizzazione italiana per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane.
Sanità Informazione ha incontrato il dottor Carlo Resti, coordinatore dei progetti e della formazione dei quadri locali sia in Italia che in Africa del CUAMM. L’organizzazione, infatti, attraverso finanziamenti e cofinanziamenti sia della cooperazione Italiana che di altri organismi internazionali, non si limita a fornire assistenza sanitaria negli ospedali ma si impegna a potenziare anche la sanità distrettuale e realizzare progetti a lungo termine in un’ottica di sviluppo. Una sua prerogativa è l’impegno nella formazione in Italia e in Africa delle risorse umane dedicate: medici, infermieri, tecnici di laboratorio e, soprattutto, ostetriche.
Si è celebrata qualche giorno fa la giornata mondiale del rifugiato e lei è appena tornato dall’Etiopia dove ha lavorato come cooperante per Medici con l’Africa Cuamm. Ci può raccontare questa esperienza dal punto di vista lavorativo: di che cosa si è occupato nello specifico?
«Non era la mia prima esperienza in Etiopia: è uno dei paesi africani che conosco meglio. Dopo aver lavorato con il Ministero degli Affari Esteri – dal 2001 al 2003 e poi dal 2005 al 2007 – il Cuamm mi ha chiesto di coordinare uno dei tre progetti di rafforzamento dei servizi sanitari etiopici. Il mio ruolo era quello di capo progetto in un programma di salute materno- infantile presso l’ospedale cattolico di Wolisso, una cittadina che dista dalla capitale Addis Abeba circa 110 km sull’altopiano Etiopico. A questa attività si affiancava un progetto di Sanità pubblica sul territorio. Nello specifico, io lavoravo in quattro distretti che fanno capo all’ospedale di Wolisso con circa 430 mila abitanti e circa 19 mila parti attesi ogni anno, dei quali ne intercettavamo il 50-55%. Questo significa che la maggioranza delle donne incinte e delle madri ancora non ha l’abitudine di andare a partorire nei servizi sanitari istituzionali e per questo l’Etiopia rimane uno dei Paesi al mondo a più alto tasso di mortalità materna ed infantile».
Quali sono le principali attività previste dai progetti che ha seguito e quali le criticità riscontrate nell’assistenza sanitaria di supporto alla popolazione?
«Parliamo di progetti di tutela della salute materno-infantile, sia per quanto riguarda il potenziamento dei servizi sul territorio sia per quanto riguarda la promozione dello screening del carcinoma della cervice uterina nelle donne in età fertile. Allo stesso modo del cancro al seno, queste patologie da sempre considerate più diffuse nei paesi evoluti, stanno crescendo moltissimo anche in Africa. Il motivo? La mancanza di prevenzione. Uno di questi tre progetti si occupa di indagare i comportamenti delle future mamme di un intero distretto cercando di capire perché i servizi sono così poco frequentati, quali sono le barriere socio culturali – soprattutto – ma anche economiche che impediscono alle donne e ai bambini di rivolgersi alle strutture preposte. È necessario introdurre una prevenzione primaria e secondaria: educare la gente alla promozione della salute».
Dottore lei qui è abituato a lavorare in un sistema sanitario nazionale pubblico ovviamente attrezzato – seppure con qualche mancanza – e con personale medico preparato e formato. Come è riuscito ad adattarsi ad un sistema più debole e carente e quanto è importante avere medici formati in Africa?
«Ci vuole innanzitutto un grande spirito di adattamento: è vero, il nostro servizio sanitario sta attraversando un momento di crisi, è allo sbando anche per la carenza di risorse umane ma non dimentichiamoci che in Italia abbiamo uno dei migliori servizi sanitari al mondo. Nei paesi più poveri e fragili – come l’Etiopia, che è un grandissimo paese con più di 100 milioni di abitanti ma chiuso, non ha sbocco al mare – grazie a finanziamenti mirati e attraverso agenzie internazionali e organismi non governativi come il nostro, interveniamo partendo non solo dalla fornitura di beni e attrezzature ma dalla formazione dei quadri locali, un intervento che ormai da moltissimi anni caratterizza la nostra organizzazione. Questo è il vero e proprio mantra da seguire, per motivi certamente economici ma anche di sviluppo sociale, perché manca un tessuto della società civile organizzata. Ci occupiamo di far partire tecnici specialisti medici – e non solo – perché organizzino percorsi di formazione e di aggiornamento del personale in loco. Durante la mia esperienza, in un anno abbiamo formato diverse centinaia di quadri intermedi: infermieri, tecnici di laboratorio, di farmacie e soprattutto ostetriche. È fondamentale poter contare su persone qualificate a livello periferico: dunque, formazione come punto numero uno e quindi leitmotiv di tutti i nostri interventi. Negli ultimi 5 anni, si sono laureate 119 ostetriche grazie alle nostre attività di sostegno».
L’attività delle ONG è un argomento molto discusso e attuale qui in Italia in questo momento storico: qual è il suo pensiero?
«Il mio pensiero è chiarissimo: la maggioranza delle ONG, soprattutto quelle ben strutturate, sono portatrici di valori di solidarietà globale e di intervento che sono irrinunciabili per una società ricca e moderna come la nostra e quella dei sette, otto paesi del G8. La soluzione è aumentare la capacità di fare interventi di cooperazione internazionale ben integrati e assistiti anche a lungo termine e non solo per le emergenze; lavorare per raggiungere quello 0,7% del proprio prodotto interno lordo da devolvere in aiuto pubblico allo sviluppo. È un obiettivo che non è mai stato raggiunto neanche da migliori paesi europei, quelli scandinavi, che si fermano allo 0,4-0,5%. Quello brutto slogan che usano in politica: “Aiutiamoli a casa loro” sono solo parole, bisogna fare i fatti. L’Italia si sta impegnando ma fatica ad incrementare il contributo pubblico allo sviluppo. Deve essere un impegno comune: coordinarsi con gli altri donatori ed allinearsi alle politiche locali di questi paesi fragili, dimostrando così che si va là per fare progetti sostenibili insieme ai governi locali. Non si può andare là su un impeto di assistenzialismo o perché siamo benefattori mondiali e vogliamo andare a fare del bene, non basta più».