«La malattia mentale fa ancora paura. Invece si tratta di individui che, se adeguatamente curati, possono esprimere se stessi». La storia di Giuseppe Insana, il sacerdote che ha concesso una nuova vita agli internati, prima della definitiva chiusura di tutti gli Opg d’Italia
«Aveva tentato una rapina in banca, ma quando lo hanno arrestato si sono accorti che quella che aveva in pugno era solo una pistola giocattolo. Per le sue condizioni non fu trasferito in carcere ma in un ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), quello di Barcellona Pozzo di Gotto». A raccontare la storia è Giuseppe Insana, cappellano dello stesso ospedale. Una storia vecchia di trent’anni ma che per il sacerdote ha qualcosa di speciale: «Questo giovane della provincia di Agrigento è stato il primo ad uscire dall’Opg grazie ad una licenza di esperimento. Lo accolsi in casa mia – ha spiegato Padre Giuseppe – come se fosse stato un mio familiare».
Negli anni successivi almeno altri mille detenuti dell’Opg messinese hanno potuto beneficiare della stessa libertà. Giuseppe Insana, grazie ad un’associazione per pazienti psichiatrici criminali, da lui stesso fondata, la “Casa di solidarietà e accoglienza”, è diventato uno dei precursori della legge n. 81 del 2014, che ha messo la parola fine agli ospedali psichiatrici giudiziari. In Italia, gli Opg sono stati definitivamente chiusi il 31 marzo dell’anno successivo all’approvazione della legge.
È stata una grande sfida per Padre Giuseppe, ma alla fine, con il tempo, ha avuto l’attenzione prima della società, poi delle istituzioni. «Lavorare in un ospedale psichiatrico giudiziario come quello di Barcellona Pozzo di Gotto, un luogo ai limiti della civiltà, mi ha spinto a cercare una soluzione: dovevo trovare un modo per “liberare” quelle persone da una condizione di vita non dignitosa. Da quel momento – eravamo negli anni ’80 – con l’autorizzazione della magistratura di sorveglianza di Messina e in collaborazione con lo stesso Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, dell’U.e.p.e (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Messina e del D.s.m (dipartimento di salute mentale) di Barcellona, permettevamo che soggetti internati per reati, più o meno gravi, potessero stare fuori in regime di libertà, in un clima di famiglia. Inizialmente, nel quartiere dove veniva trasferito il paziente, si respirava un clima di paura. Una diffidenza che, pian piano, lasciava spazio all’accoglienza, all’amicizia, alla fiducia».
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Un’esperienza che Don Giuseppe ha portato avanti con caparbietà fino al 2014, anno in cui è stato chiamato a raccontarla: «Siamo stati convocati diverse volte dalla Commissione parlamentare incaricata di elaborare il testo di quella che sarebbe stata la legge 81. Le nostre storie – ha detto il cappellano – hanno contribuito alla stesura finale».
Una soddisfazione enorme per Padre Giuseppe che, nonostante i risultati ottenuti in questi ultimi trent’anni di opera sociale, continua ad essere in prima linea per combattere contro un altro grande problema: lo stigma, quel pregiudizio infondato che ha come conseguenze l’isolamento del malato e l’impossibilità di curarlo adeguatamente.
«La malattia mentale – ha detto Giuseppe Insana – fa ancora paura». Il cappellano dà la colpa alla disinformazione: «L’ignoranza spinge a considerare la persona con disagio mentale come un pericolo, un peso per la società, un rischio. Invece, si tratta di individui che, se adeguatamente curati, possono esprimere se stessi, le proprie attitudini e potenzialità, diventando una risorsa per la comunità. Spesso è la stessa famiglia ad avere paura, mettendo le distanze, preferendo le strutture residenziali ad un’accoglienza in casa. Questa ignoranza porta all’isolamento, alla emarginazione, alla segregazione, alla mortificazione della vita».
Padre Giuseppe è fiducioso. Esattamente come trent’anni fa, quando credeva che un giorno gli Opg avrebbero chiuso per sempre, oggi è convinto che anche il problema dello stigma possa essere messo a tacere. «Innanzitutto – ha detto – è necessario supportare le famiglie, affinché non decidano di “scaricare il figlio non riuscito”. Poi, è necessario indirizzare i servizi di salute mentale verso progetti di riabilitazione e reinserimento. I pazienti vanno certamente curati, ma poi devono essere liberi di vivere nella società come tutti gli altri. È sbagliato investire soprattutto nelle residenze chiuse – ha concluso don Giuseppe – perché ho sperimentato sulla mia pelle che più un trattamento priva l’individuo della sua libertà, più la sua patologia rischia di cronicizzarsi».