Il direttore dell’Area Neuroscienze del Policlinico romano spiega: «Nuovi farmaci in sperimentazione potranno avere successo perché testati nelle fasi prodromiche della malattia». Poi elogia tecnologia: «Supporto non secondario per i pazienti»
L’importanza della prevenzione vale per tantissime patologie. Una di queste è l’alzheimer che comporta un lento e progressivo decadimento delle funzioni cognitive, dovuto all’azione di due proteine, la beta-amiloide e la proteina Tau, che si accumulano nel cervello causandone la morte cellulare. Una malattia, l’alzheimer, destinata ad espandersi sempre di più con l’innalzamento dell’età: nel 2030 saranno più di 2 milioni le persone colpite da alzheimer. «Evidenze scientifiche ci dicono che l’attacco ai neuroni ed ai circuiti nervosi inizia almeno 15-20 anni prima della comparsa dei ‘tipici’ disturbi della memoria. Questo perché nel nostro cervello c’è un numero enorme di cellule, circuiti e sinapsi ‘di riserva’ in grado di sostituire quelli danneggiati o distrutti dalla malattia, fino a quando non si arriva a una soglia limite, superata la quale il meccanismo degenerativo diventa inarrestabile», ha spiegato Paolo Maria Rossini, direttore Area Neuroscienze, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs-Università Cattolica di Roma in occasione della presentazione di ‘Chat Yourself’, l’assistente virtuale che aiuterà i pazienti con la malattia agli esordi a ricordare informazioni, una sorta di memoria virtuale a portata di smartphone.
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Professor Rossini, quanto è importante intervenire in una fase antecedente allo sviluppo dei sintomi nell’alzheimer?
«Se noi consideriamo che la malattia in realtà è cominciata molti anni, forse decenni prima della comparsa dei primi sintomi, è importante perché di fatto quella malattia era già presente. Solo che il cervello aggredito è dotato di circuiti di riserva, è dotato di plasticità sufficienti a contrastare l’aggressione, a sostituire le parti rotte con quelle di riserva e quindi mantiene le funzioni del soggetto. Quando i sintomi compaiono la situazione è già talmente irreversibile che l’intervento con farmaci e anche con altri tipi di intervento non farmacologico ha dei risultati molto modesti. È per questo che in tutto il mondo si sta mettendo a punto un metodo di diagnosi precoce, la più precoce possibile da applicare a quei soggetti che sono nella cosiddetta fase prodromica, che gli anglosassoni definiscono Mild Cognitive Impairment – MCI perché si sa che in questa fase i risultati sono migliori e soprattutto sono più lunghi e quindi non si guarisce ma si ritarda nel tempo l’esordio della malattia vera e propria e quindi si rallenta la progressione della medesima».
Lo stato dell’arte dal punto di vista della ricerca sui farmaci a che punto è?
«I farmaci in corso di sperimentazione sono varie decine. I risultati di alcuni trial verranno resi noti già alla fine di questo anno, nel corso dei mesi di settembre e ottobre e vedremo cosa ci diranno. Fino ad oggi tutti i trial clinici hanno fallito, però la speranza è che questi ultimi siano invece positivi e se lo saranno lo saranno proprio perché sono intervenuti nelle fasi prodromiche della malattia e non hanno atteso come tutti i trial precedenti di intervenire sulla malattia già conclamata».
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La tecnologia può aiutare la qualità della vita dei pazienti di alzheimer?
«Certamente sì. La tecnologia si può porre a due estremi: può peggiorare la vita perché quando è troppo complicata e una persona ha dei problemi cognitivi non riesce a stare dietro alle evoluzioni tecnologiche e quindi viene in qualche modo ghettizzata. Ma quando è facile o è mirata, come nel caso di Chat yourself, a codificare informazioni che sono utili per la vita del paziente e della famiglia certamente è un supporto non secondario».