Rinaldo Guglielmi, past president dell’Associazione Medici Endocrinologi: «Le nostre Linee guida per la patologia nodulare e il carcinoma differenziato tiroideo sono una novità assoluta: per la prima volta hanno collaborato insieme endocrinologi, patologi, medici nucleari e chirurghi»
Si prevede che entro il 2020 il cancro della tiroide diventerà il secondo tumore più frequente tra le donne. Solo nel 2017 le nuove diagnosi sono state più di 15 mila. L’aumento di casi, fortunatamente, non è associato ad un incremento della mortalità: il 76% dei pazienti, grazie ad una diagnosi precoce, guarisce.
«Su cento persone che hanno un nodulo alla tiroide sappiamo già, prima di valutarli, che 5 o 6 hanno una patologia neoplastica. Per questo – ha spiegato Rinaldo Guglielmi, past president dell’Associazione Medici Endocrinologi, Ame – dobbiamo essere in grado di individuare il 15-20% di quei pazienti tra cui sono presenti i casi più gravi. Al restante 80% dovranno essere evitate indagini di secondo livello, ago aspirato, controlli trimestrali o semestrali, ecografie».
Ed è proprio per perseguire questo obiettivo che, per la prima volta, endocrinologi, patologi, medici nucleari e chirurghi, hanno collaborato alla redazione delle nuove Linee guida italiane per la patologia nodulare e il carcinoma differenziato tiroideo, presentate a Roma durante il 6° Thyroid UpToDate.
«Nel mondo – ha continuato Rinaldo Guglielmi – le linee guida che riguardano la patologia nodulare maligna e benigna sono numerose, però questo è stato uno sforzo intersocietario che ha visto tre società di endocrinologi – l’Associazione Italiana della Tiroide (Ait), l’Associazione Medici Endocrinologi (Ame), la Società Italiana di Endocrinologia (Sie) -, la Società Italiana Unitaria di Endocrino Chirurgia (Siuec), la Società di Anatomia Patologica e di Diagnostica Citologica (Siapec) e l’Associazione Italiana Medici Nucleari (Ainm), mettere a punto, insieme, una strategia diagnostica e terapeutica per pazienti che hanno un patologia nodulare, sia di natura benigna che maligna».
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«Un lavoro nato dall’esigenza di fare ordine in una letteratura molto vasta che rischia di disorientare il paziente ed il medico che lo gestisce. Spesso – ha sottolineato il past president Ame – si ricorre a troppe indagini anche per la valutazione di pazienti che non hanno problemi seri e che, pertanto, potrebbero evitare di sottoporsi ad una serie asfissiante di indagini. D’altro canto, invece, queste linee guida ci indicano come individuare il sottogruppo di quei pazienti più gravi che hanno la necessità di una diagnosi più accurata e di essere indirizzati verso accertamenti di secondo e terzo livello. Il documento, dunque, – ha sottolineato l’endocrinologo – permette di individuare i soggetti che meritano una maggiore attenzione diagnostica, evitando di sottoporre inutilmente ad indagini invasive la maggior parte dei pazienti con noduli che non presentano elementi di preoccupazione».
Ed è proprio la valutazione attenta dei malati ad alto rischio ad essere fondamentale: «Anche tra i pazienti più gravi, quelli che fanno parte di quel 5-6% che presentano una neoplasia, è possibile individuare un ulteriore sottogruppo: sono circa un terzo, al massimo la metà, i pazienti che possono avere degli aspetti evolutivi importanti. Questa evoluzione particolarmente critica è oggi individuabile grazie non solo all’aiuto dell’ago aspirato ma anche ad avanzati macchinari ecografici, in grado di definire i criteri di rischio».
Fortunatamente il cancro alla tiroide non è un nemico troppo duro da sconfiggere: «Oltre la metà dei pazienti con tumore alla tiroide – ha detto Rinaldo Guglielmi – ha un andamento indolente».
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Oltre a identificare le condizioni e le caratteristiche che meritano maggiori approfondimenti diagnostici, le Linee guida analizzano anche gli approcci terapeutici più appropriati: «Nel documento si raccomanda di procedere con interventi chirurgici meno estensivi ed invasivi, confermando la nuova tendenza a prediligere interventi conservativi. Tale approccio – ha spiegato l’endocrinologo – permette di ridurre il fabbisogno di terapia sostitutiva e si associa ad una minore insorgenza di complicanze metaboliche e anatomiche. Inoltre, in assenza di caratteristiche allarmanti si evita l’intervento quando l’analisi tra i costi e benefici per il paziente non è vantaggiosa, come nel caso di soggetti con malattie concomitanti e quindi – ha concluso il past president Ame – ad alto rischio».