Il segretario del sindacato degli specialisti ambulatoriali sottolinea: «Va bene organizzare le agende con il CUP nazionale ma poi serve che qualcuno le prestazioni le faccia». Poi lancia l’allarme: «Se si continua così SSN rischia di perdere i migliori professionisti»
Due milioni di italiani, secondo i dati Istat, rinunciano alle cure per le liste d’attesa. Un dato che fa riflettere e che segnala quello che è il vero tallone d’Achille del nostro Servizio sanitario nazionale, soprattutto al centrosud. Un problema a cui sta cercando di porre rimedio il governo, che ha stanziato nella manovra di bilancio 50 milioni di euro per i prossimi tre anni per l’abbattimento delle liste d’attesa, un CUP nazionale e si appresta a varare un nuovo Piano nazionale. Provvedimenti attesi ma che Antonio Magi, Segretario del SUMAI – Sindacato Unico Medicina Ambulatoriale Italiana e Professionalità dell’Area Sanitaria, giudica insufficienti: «Bisogna creare le condizioni per cui vengano riassunti nuovi medici, che si sblocchi il turnover e venga potenziato quelle che sono tutte le attività, sia ospedaliera che territoriale». Per Magi la ricetta è una: potenziare la medicina del territorio: «Le liste di attesa siamo noi. La mancanza di specialisti sul territorio crea le liste di attesa, questa è la realtà». E sull’intramoenia prende le distanze dal presidente della Toscana Enrico Rossi che vorrebbe limitare questo strumento: «È uno strumento importante perché permette al paziente di tornare dal medico di cui ha fiducia».
Segretario Magi, parliamo di liste d’attesa. Il governo ha stanziato 50 milioni in tre anni, dal 2019 al 2021, poi c’è un numero CUP nazionale attivato. Secondo lei sono misure sufficienti?
«No, 50 milioni sicuramente non sono sufficienti. Sono 50 milioni all’anno per tre anni, in totale 150 milioni. Molti focalizzati al CUP nazionale. Ma non basta soltanto organizzare le agende. Ci vuole qualcuno che le prestazioni le faccia e questi soldi dovrebbero esser messi anche per l’incremento di ore di specialistica sul territorio che essendo carenti creano le liste di attesa».
Il Fondo sanitario nazionale sarà implementato di un miliardo per quest’anno e 3,5 miliardi per i prossimi due anni. Molti, a partire dai sindacati, sostengono che sia una cifra insufficiente. Voi come la pensate?
«La pensiamo uguale. Quel miliardo addirittura non va a ricoprire nemmeno l’inflazione reale. Era già stato previsto dalla vecchia finanziaria, oggi questo miliardo ce lo ritroviamo di nuovo. Se incrementato di qualche euro probabilmente potrà coprire esclusivamente i rinnovi contrattuali, un meccanismo per cui in qualche modo possono avere un minimo di ristoro. Ma questo non basta perché bisogna creare le condizioni per cui vengano riassunti nuovi medici, che si sblocchi il turnover e vengano potenziate quelle che sono tutte le attività, sia ospedaliere che territoriali. Poi dobbiamo rinnovare il parco macchine che ovviamente è obsoleto, molte attrezzature che oggi usiamo non sono di ultima generazione. Questo richiede dei finanziamenti che questo miliardo scarso chiaramente non va a coprire. Nel totale dei 3,5 miliardi dei prossimi anni bisogna vedere se questi basteranno rispetto a quelle che sono le necessità del Servizio sanitario nazionale: faccio notare che si parla di mancanza di specialisti, di borse specialistiche, ovviamente, e di molti medici che stanno andando in pensione, non soltanto quelli che sono già andati e non sostituiti, ma quelli che andranno e che saranno tantissimi. E questo bisogna vedere come poterlo organizzare, perché secondo me i soldi che sono messi a disposizione non sono sufficienti».
Tornando sulle liste d’attesa, qual è il ruolo che possono giocare gli specialisti ambulatoriali?
«Le liste di attesa siamo noi. La mancanza di specialisti sul territorio crea le liste di attesa, questa è la realtà. L’ospedale fa attività di acuzie, fa anche normale attività ambulatoriale che non dovrebbe fare. Questa dovrebbe essere fatta soltanto sul territorio e dagli specialisti ambulatoriali. Poi la capacità di poter dare un’offerta sufficiente a quelle che sono le necessità della popolazione diventa chiara, per cui le liste di attesa, mancando gli specialisti, si formano e si allungano. Voglio ricordare che quando ho iniziato la mia attività nell’ambulatorio per cui lavoravo c’erano dieci ortopedici, oggi ce n’è soltanto uno. Ci sono addirittura Asl che non hanno pubblicato molti turni di attività specialistica territoriale pur avendo la possibilità, avendoli già in bilancio. E hanno invece chiesto alle regioni dei finanziamenti con progetti ad hoc per abbattere le liste di attesa e questo secondo me ha un qualche riflesso anche di Corte dei Conti».
Un tema che si lega in qualche modo a quello delle liste di attesa è quello dell’intramoenia. Il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi ha da poco avviato una riforma che vuole limitare questo strumento. Voi come la pensate?
«L’intramoenia è una cosa importante, non va eliminato così. Va organizzato nel modo migliore. Bisogna che ci sia un’ottima offerta sanitaria pubblica direttamente data al paziente con il Servizio sanitario nazionale e gestire l’intramoenia nella maniera più corretta. L’intramoenia nasce con la possibilità che il paziente possa scegliersi il medico che lo visita, cosa che il SSN non sempre garantisce. Per cui il paziente che ha fiducia in un medico, in uno specialista, lo chiede appositamente e il medico in attività libero professionale lo può visitare oltre l’orario di servizio».
Tanti parlano delle autodimissioni, cioè di tanti medici che lasciano il Servizio pubblico stressati da turni insopportabili e stipendi non all’altezza per il privato. Come si può risolvere questo problema?
«Si può risolvere soltanto ricreando le condizioni per cui ci sia un’offerta di attività all’interno della struttura sanitaria pubblica che sia ragionevole, sia per quanto riguarda la parte economica sia per quanto riguarda come si lavora all’interno della struttura pubblica. Queste sono le due cose che creano le condizioni per cui molti colleghi decidono di lasciare l’attività nel Servizio sanitario nazionale e andare nel privato. Purtroppo, l’attività professionale del medico non è un fatto standard, dipende dalla qualità del professionista, da come sa operare, da come sa gestire la sua attività. Ovviamente è chiaro che nel momento in cui non ha all’interno della struttura sanitaria una remunerazione sufficiente, che lui ritiene che sia compatibile con quelle che sono le sue capacità e nello stesso momento la qualità del tipo di attività, lui sceglie di andare nel privato. Questo crea due cose differente: la prima è che perdiamo i migliori professionisti all’interno del Servizio sanitario nazionale verso l’attività privata, l’altra è che crea grosse diseguaglianze in quanto magari un ottimo professionista di Reggio Calabria va a Milano a lavorare perché magari lavora meglio e lo pagano di più».
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