Secondo una ricerca MediaPragma il 20% di tutti gli eventi TEV si riscontra nei pazienti malati di cancro. Ma per il 72% dei malati oncologici non sa di correre un rischio maggiore. La FAVO pronta a preparare una brochure informativa
Spesso il cancro porta con sé altre patologie che, se trascurate, possono condurre anche ad esiti fatali. È il caso della tromboembolia venosa (TEV), che per i malati oncologici rappresenta la seconda causa di morte dopo la neoplasia stessa. Un rischio spesso sconosciuto ai pazienti, come rivela la ricerca MediPragma promossa da Daiichi Sankyo Italia, “Cancro e tromboembolismo venoso: il peso della convivenza sui pazienti”.
Le interviste – evidenzia l’indagine – delineano un impatto devastante sulla vita dei pazienti e dei loro familiari e caregiver, che ha un prezzo altissimo a livello psicologico, economico e sociale. L’insorgenza del tromboembolismo venoso in pazienti con tumore può comportare, infatti, l’allontanamento dal lavoro e l’isolamento sociale, e un conseguente peso sui familiari.
Dall’indagine emerge che il 20% di tutti gli eventi TEV si riscontra nei pazienti malati di cancro. Il rischio è maggiore nei primi mesi fino a due anni dopo la diagnosi e il pericolo di recidiva persiste anche successivamente. Durante la chemioterapia il rischio di Tev è fino a 7 volte maggiore se paragonato ai pazienti senza cancro. I tumori al cervello e al pancreas sono associati ad un più alto rischio TEV.
A sottolineare la necessità di informare e sensibilizzare innanzitutto pazienti e caregiver e in secondo luogo istituzioni e operatori sanitari sui rischi di questa patologia correlata al cancro è stato Francesco De Lorenzo, presidente della Coalizione europea dei pazienti oncologici (Ecpc) e della Federazione italiana delle Associazioni di volontariato in Oncologia (Favo).
«Questa è una iniziativa che è partita dalla European Cancer Patient Coalition che io presiedo a Bruxelles, una organizzazione europea che mette insieme di più di 450 associazioni di tutti i paesi europei – spiega a Sanità Informazione De Lorenzo – Come Italia noi cerchiamo di promuovere iniziative che mirino a far conoscere all’opinione pubblica aspetti un po’ trascurati del cancro. Ci siamo molto occupati in passato di nutrizione, di pancreas. Abbiamo avuto modo di presentare il risultato di un sondaggio fatto in cinque paesi europei tra cui l’Italia, la Grecia e l’Inghilterra e poi la Spagna in cui abbiamo potuto sentire i malati in corso di trattamento e anche quelli ora liberi da malattia. Il 72% di questi malati ha sostenuto sostanzialmente di non essere mai venuto a conoscenza del problema trombotico e quelli che ne erano a conoscenza era perché in buona parte erano stati toccati dal problema».
La conoscenza del rischio è per l’ex Ministro della Salute, un fattore chiave per prevenire conseguenze più gravi. «È un aspetto trascurato che invece i malati devono poter conoscere come rischio – spiega il Presidente ECPC – Devono poterlo conoscere come potenziale rischio perché spesso il cancro può comparire anche con una manifestazione di tipo tromboembolico. Inoltre avere un trattamento preventivo aiuta perché il malato che ha problemi anche di sedentarietà, se sa che muovendosi previene il rischio tromboembolico, può correre ai ripari. Per cui abbiamo ritenuto di trasferire nei paesi membri della UE e abbiamo preso questa iniziativa mettendo insieme attorno a un tavolo esperti a cominciare dagli ematologici, oncologi fino agli internisti. Ora vogliamo cominciare a preparare una brochure “cancro e trombosi” in modo tale che rientri anche nella cultura generale questo aspetto e poi vogliamo lavorare con gli oncologici medici, perché ci sono dei problemi organizzativi, a partire dalle reti oncologiche che se funzionano assicurano anche degli interventi immediati».
«Si, è un problema di cui bisogna parlare perché la correlazione tra disturbi della coagulazione che possono sfociare in un evento tromboembolico e una neoplasia è molto stretta – spiega Sergio Siragusa, Vice Presidente della S.I.E. Società Italiana Ematologia – Questo sia perché la cellulare tumorale che è una cellula molto attiva ha bisogno di attivare la coagulazione proprio per la sua sopravvivenza e per la sua progressione e d’altro canto clinicamente le complicanze tromboemboliche possono anche compromettere nella migliore delle ipotesi la qualità di vita del paziente ma in alcuni casi, fortunatamente non molti, possono addirittura determinare la morte del paziente. Quindi non dobbiamo rischiare ora che stiamo curando in maniera corretta e che abbiamo quasi cronicizzato molto delle neoplasie ematologiche, rischiare di perdere il paziente per una complicanza che conosciamo, che possiamo prevenire e che abbiamo l’obbligo di curare nel miglior modo possibile».
«Ci sono dei criteri per identificare i soggetti che sono a maggiore rischio di TEV – aggiunge Antonio Russo, Professore Oncologia Medica Università Palermo – Questi criteri che sono i criteri standard sono stati integrati anche con il tipo di chemioterapia che viene fatta. Per dire una chemioterapia con i derivati del platino ha un rischio maggiore rispetto a un altro tipo di chemioterapia. Oppure l’aggiunta di farmaci antiangiogenetici determina un maggiore rischio di trombosi di tipo arterioso. Cosa stiamo facendo. Ci sono degli studi nuovi con farmaci di nuovi generazione, i cosiddetti NAO. Questi farmaci hanno una maggiore maneggevolezza, nel senso che è una somministrazione di tipo orale e questi potrebbero dare una svolta in particolare in alcuni gruppi di pazienti. Siccome c’è un maggior rischio con questi farmaci di sanguinamento al livello dell’apparato gastrointestinale alto per esempio non in questi tumori, ma in altri tumori se ci saranno indicazioni sempre più forti potrebbero essere adottati per tutti i nostri pazienti oncologici.