di Johann Rossi Mason, Giornalista medico scientifico
Ci sono conversazioni più difficili di altre nel corso della nostra esistenza e tra queste ci sono sicuramente quelle che hanno a che fare con la morte. Fattori sociologici, culturali e religiosi si intrecciano tra loro ma la morte nell’era che stiamo vivendo non è argomento di conversazione. Anzi, ammantata di superstizione, è come la polvere nascosta sotto al tappeto: tutti sanno che verrà fuori ma tutti fanno finta di non vedere. Eppure aver trasformato la morte in un tabù e non in un fatto assolutamente naturale e inevitabile non fa bene a chi muore né a chi rimane, insomma a nessuno. Il 19 ottobre scorso il Royal College of Physicians inglese ha pubblicato il Rapporto dal titolo Talking about dying, insomma conversazioni oneste su come moriamo e come vorremmo farlo. Perché se morire è inevitabile, diverso è il discorso sul ‘come’: possiamo avere ancora un certo controllo, almeno in alcuni casi. E si è visto che prendere decisioni sul proprio fine vita facendone argomento di discussione permette un trapasso più sereno, insomma, una morte migliore.
Serviva che si scomodasse proprio una autorità come quella inglese che ha preso atto come la morte sia un argomento sgradito proprio dalla classe medica che la vive come una sconfitta. I medici considerano la morte un fallimento della medicina moderna e il risultato è una certa ‘solitudine del morente’, che insieme alla famiglia si sente inascoltato e abbandonato.
Su una morte che possa essere percepita come ‘amica’ invece c’è moltissimo da fare, anche attraverso la formazione dei giovani medici e il recupero di abilità di ‘cura’ che non siano solo tecniche e tecnologiche. Servono invece piani di assistenza ad hoc del fine vita che prevedano strutture, assistenza domiciliare, scelte di trattamento, decisioni condivise. Tutti fattori che contribuiscono a dare dignità, migliore controllo dei sintomi, esperienze meno traumatiche, mentre non sollevare la questione significa mettere a repentaglio questi benefici.
Affrontano questo delicato problema, Paolo Trenta e Marta De Angelis nel bel volume “In modo giusto – Medicina narrativa nelle cure di fine vita” (Bulgarini editore), che racconta il percorso e l’evoluzione delle cure palliative nel Mondo e in Italia.
“In modo giusto” è la proposta di un ascolto che confluisce in un racconto e porta dritto all’identità completa e complessa di una persona. Un percorso di vita che ha molto da dire su come si può e si vuole morire.
In nessun’altra epoca si è vissuto così a lungo e così in buona salute, ma inutile illudersi, perché il momento della fine arriva per tutti. La tendenza è rimuovere questo momento dal pensiero e dalla vista, quello che è definito da Norbert Elias la “solitudine del morente”. È una rimozione collettiva dell’idea stessa di morte.
Tiziano Terzani ha acutamente osservato che abbiamo levatrici che ci aiutano a nascere, ma nessuno che ci aiuti a morire. Perché non pensare che possa esistere anche un modo per “dormire bene”? Per trascorrere gli ultimi giorni con il minimo di sofferenza possibile e nel contesto migliore in uno spazio fisico e psicologico in cui le scelte vengono condivise con il paziente a suo esclusivo beneficio.
Cure su misura per la persona e la sua famiglia, accomunati dall’ansia, dall’impossibilità di pensare a un dopo, bloccati nell’interrogativo del senso della nostra esistenza terrena.
Una elaborazione che la moderna biomedicina con il suo tecnicismo efficiente ha oscurato insieme alla personalità e allo status del paziente, che diventa la sua malattia.
Può esistere quindi un “modo giusto” di morire e di averne un consolatorio controllo. Se ne occupano in Umbria i soci di una associazione: Aglaia, che si occupa di assistere i pazienti affetti da malattie cronico-degenerative in fase avanzata.
Le storie toccanti che chiudono il libro sono consolazione e balsamo di umanità, strumenti per la qualità di vita anche per un giorno solo o un solo minuto.
Johann Rossi Mason – Giornalista medico scientifico