«Nel 2015, sono stato costretto a seguire un corso di informatica di 16 ore. Della dozzina di chirurghi che erano con me, nessuno voleva stare lì». Il rapporto tra medici e computer nelle parole del chirurgo statunitense Atul Gawande, professore alla Harvard Medical School
«Nel 2015 sono stato costretto a seguire un corso di computer di 16 ore. Della dozzina di chirurghi che erano con me, tra i 30 e i 70 anni, nessuno voleva stare lì». Inizia così un nuovo articolo di Atul Gawande, chirurgo statunitense e professore alla Harvard Medical School, che racconta sul New Yorker il suo rapporto con l’informatica.
«Dovevamo imparare ad utilizzare la nuova piattaforma adottata dal nostro ospedale, che ci avrebbe permesso di inserire più facilmente tutti i dati del paziente e le nostre osservazioni, inviare le prescrizioni direttamente alla sua farmacia, prescrivere analisi o lastre, organizzare gli interventi chirurgici, inviare le fatture alle assicurazioni. I primi esercizi erano semplici: non me la cavavo male ad inserire il nome o il contatto di emergenza; poi le cose sono diventate più complicate – ricorda Gawande -. Per controllare i risultati delle analisi, ad esempio, c’erano 13 comandi praticamente identici, tipo “controlla i risultati” o “guarda le analisi”. Io e i miei colleghi chirurghi siamo andati in crisi».
«Concluso il corso – continua -, è iniziata la fase del Go-Live. Nelle prime cinque settimane, il servizio di informatica dell’ospedale ha ricevuto 27mila richieste di assistenza. Tre ogni due utenti. La maggior parte non sapeva come fare alcune cose, pochi altri lamentavano problemi tecnici. Dopo sei mesi, avevo imparato ad utilizzare bene il nuovo software. Essendo un chirurgo, però, trascorrevo gran parte della mia giornata in sala operatoria. Mi sono chiesto, allora, cosa fosse successo ai colleghi più legati al ‘lavoro di ufficio’. Ho parlato con Susan, un medico di famiglia, inizialmente tra le più entusiaste del contributo tecnologico al suo lavoro. Ma non lo è più. Prima non si portava mai il lavoro a casa, mi ha detto. Da quando l’informatica è entrata prepotentemente nella nostra professione, trascorre al computer almeno un’ora al giorno, dopo che i figli sono andati a letto».
La vita di Susan, insomma, è peggiorata, ma non è l’unica a pensarla così. Uno studio del 2016 ha dimostrato che, in media, i medici passano due ore davanti al computer per ogni ora trascorsa con il paziente. Ma anche durante le visite, la metà del tempo è dedicato alla burocrazia. Il risultato? Livelli impressionanti di burnout: il 40% dei medici è depresso, e il 7% ha dichiarato di pensare al suicidio. Sono percentuali che raddoppiano i tassi medi di burnout nella popolazione lavorativa. E cambiano in base alla specializzazione medica: i chirurghi dichiaravano livelli più bassi di burnout; gli specialisti di emergenza-urgenza, al contrario, avevano i tassi più alti. E la discriminante è proprio la quantità di tempo trascorsa davanti al computer. «L’informatizzazione – commenta Gawande – ha semplificato il lavoro in molti settori; tuttavia, abbiamo raggiunto il punto in cui i medici odiano visceralmente i computer».
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«Assodato che la vita dei medici è peggiorata, diamo però un’occhiata a quella dei pazienti – continua il professore di Harvard -. È su questo che mi fa riflettere un altro collega, Gregg. Noi medici, infatti, pensiamo che l’informatizzazione del nostro lavoro serva ad aiutare noi. Ma forse non è così. Se circa 60mila professionisti utilizzano il software, i pazienti che vi entrano per controllare i risultati dei loro esami, o le medicine che devono prendere, o rileggere con calma gli appunti del medico per capire meglio il loro problema, sono almeno dieci volte tanti».
Una ricerca, poi, ha studiato gli effetti dell’informatizzazione della sanità sui tassi di mortalità dei pazienti: nel primo anno, si è registrato un aumento delle morti dello 0,11% per ogni nuova funzione introdotta; dopo, però, la stessa percentuale è crollata allo 0,21%. «Se l’informatizzazione causa delle noie ai medici ma migliora l’esperienza dei pazienti e, addirittura, contribuisce a salvare delle vite, ne vale la pena, no?».
Atul Gawande, allora, continua a riflettere sulle ragioni di fondo che rendono i computer così detestati dai medici, che vadano al di là del tempo ‘perso’ e non dedicato al paziente o delle difficoltà riscontrate ad utilizzare una determinata piattaforma. E quello che trova è un motivo quasi antropologico: «La medicina – scrive – è un complesso sistema adattivo: è composta da molti strati e da tante parti interconnesse, ed è fatta per evolvere nel tempo e a condizioni diverse. I software no. Sono anch’essi sistemi complessi, ma non si adattano alle situazioni. Ed è questo il nodo del problema».
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«L’adattamento – spiega Gawande – necessita di mutazione e selezione. La mutazione produce varietà e deviazione; la selezione consente di eliminare le mutazioni meno funzionali. La nostra bella e antica professione, prima dei computer, era solo mutazione, senza selezione. C’era spazio per tanti individui che facevano cose diverse rispetto alla regola. Tutti potevano essere degli innovatori. Non c’era però un meccanismo che consentisse di metter da parte idee o pratiche non buone. L’informatica, al contrario, è solo selezione senza mutazione. I capi installano un monolite, e il più piccolo cambiamento richiede la decisione di un comitato e diverse settimane di test per controllare se quel piccolo cambiamento possa causare dei danni in altre, lontane, parti del sistema. Insomma, quello che tutti noi vorremmo ma che ancora non abbiamo è un sistema che preveda sia la mutazione che la selezione».
«C’è però chi ha iniziato a lavorare per crearlo: Neil è un neurochirurgo famoso per semplificare problemi medici complessi. Quando nel suo ospedale è arrivato il nuovo software, ha deciso di provare a fare la stessa cosa. Ma non da solo: ha organizzato delle riunioni settimanali a cui partecipavano tutti i colleghi di neurochirurgia (medici, segretari, infermieri e capi), non per lamentarsi dei problemi del sistema ma per re-immaginarlo. Discutevano delle funzioni inutili e dei cambiamenti utili che vi si potevano apportare. Hanno adattato il software alle necessità della neurochirurgia e hanno introdotto mutazione e selezione. Hanno preso il controllo della tecnologia, rendendola veramente più efficiente e più utile, sia per i medici che per i pazienti. Se le macchine stanno portando la medicina nella direzione sbagliata – conclude Gawande -, la colpa è la nostra. Non delle macchine».