Nell’intervista esclusiva a Sanità informazione Francesca Perri, medico 118 e sindacalista Anaao-Assomed, reclama interventi concreti dalle istituzioni: «Noi facili bersagli della rabbia sociale». L’operatore del territorio è più esposto: «Noi siamo tre-quattro persone sull’ambulanza, la prima cosa che ci viene detto appena arriviamo è sempre: ‘Quanto ci avete messo!’»
I numeri della violenza contro medici ed operatori sanitari crescono in un’escalation senza fine e i casi di aggressione al personale sanitario sono ormai all’ordine del giorno. Solo qualche giorno fa, all’ospedale San Giovanni di Dio di Crotone, una dottoressa è stata aggredita con un cacciavite dal familiare di un paziente e al Santobono di Napoli, il padre di un ragazzo in codice verde ha minacciato di sparare a infermieri e medici se non avessero visitato subito il figlio.
Il ministro della Salute Giulia Grillo ha sollecitato più volte l’approvazione del Ddl antiviolenza al Parlamento in modo da renderlo immediatamente esecutivo. Abbiamo cercato di valutare le cause del fenomeno con la dottoressa Francesca Perri, medico 118 dell’Ares Lazio (azienda sanitaria regionale emergenza territoriale) e sindacalista Anaao-Assomed che l’ha definito un «problema culturale».
Dottoressa, secondo un’indagine della FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), solo nell’ultimo anno, il 50% dei medici e degli operatori sanitari sono stati oggetto di aggressioni. Ci racconta quella che è la sua esperienza quotidiana e quali sono le difficoltà che incontra maggiormente nel suo lavoro?
«Le difficoltà sono tantissime, il 118 è pronto soccorso e i servizi H24 vengono utilizzati ormai per sopperire alle carenze organiche del territorio. La gente non trova aiuto e si rivolge a noi, con un conseguente numero eccessivo di chiamate non congrue e un grande afflusso ai Pronto soccorso. Siamo tenuti a rispondere ma spesso si tratta di interventi di vario genere, non si tratta di patologie tempo-dipendenti che precludono la vita e hanno bisogno di un intervento immediato: infarto, ictus, emorragie, coma. Questi dovrebbero essere i nostri target, in realtà interveniamo su tutto. Questo dipende da un depauperamento complessivo, non ci sono investimenti in sanità. Le persone si rivolgono al pubblico però si lamentano perché non funziona. Noi ce la mettiamo tutta ma non riusciamo a soddisfare i bisogni di salute viste le enormi carenze, dal depotenziamento dei servizi al blocco del turn over passando per le mancate assunzioni nella specialistica ambulatoriale. Ci sono state riduzioni dei posti letto negli ospedali e spesso le nuove assunzioni non hanno coperto neanche i posti di chi è andato in pensione. Non c’è il personale né medico né infermieristico, alcuni ambulatori specialistici sono stati accorpati per garantire un minimo di funzionamento; la stessa cosa vale per i consultori dove viene gestita l’interruzione volontaria di gravidanza, le vaccinazioni, le pratiche relative al genere femminile. La gente, non trovando risposte qui, si rivolge al Pronto soccorso e al 118».
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Quali sono le motivazioni più frequenti per le quali scattano le aggressioni verbali e, a volte, anche fisiche ai medici?
«La gente si sfoga: anziché protestare con i decisori della politica che non studia programmi sanitari adeguati si scaglia contro di noi. Le persone pensano che se la sanità non funziona dipende da noi ma non è così. Noi facciamo il massimo di quello che è nelle nostre mansioni, a volte andiamo oltre i nostri doveri e compiti. Ci saranno mele marce nel sistema, ma la maggior parte di coloro che lavorano in sanità l’hanno “scelto” per vocazione. Molti, tra medici e infermieri, lavorano in condizioni di precarietà assoluta; anche questo non aiuta. C’è una sfiducia generale da parte della popolazione nei confronti degli operatori ma anche da parte degli operatori stessi».
L’operatore del territorio è sempre più a rischio…
«Sì, l’operatore del territorio è più esposto: noi siamo tre-quattro persone sull’ambulanza: la prima cosa che ci viene detto appena arriviamo è sempre: ‘Quanto ci avete messo!’ La gente non sa da dove parte l’ambulanza, spesso siamo impegnati in più soccorsi. Oltre a questo, devo dire che da quando è subentrato il 112 nel Lazio i tempi di attesa sono aumentati perché c’è una doppia intervista telefonica e si perdono minuti preziosi. Il territorio da coprire è sempre più vasto: io copro un territorio di 300-400 mila abitanti con una sola auto medicalizzata. A volte si fa partire l’ambulanza con solo l’infermiere a bordo quando in realtà c’era necessità di un medico. I problemi sono tanti».
Lei personalmente, ha subìto aggressioni verbali o fisiche nella sua esperienza?
«Si, è capitato tantissime volte, di quelle verbali non ricordo più il numero. Non le segnalo neanche più, penso che in fondo ho davanti i pazienti e i loro parenti preoccupati e penso a tutelarli. Evito di denunciare e segnalare gli episodi spiacevoli perché il mio dovere è fare il medico e risolvere il problema di salute del malato. Ma le aggressioni non solo sono all’ordine del giorno, ma devo dire che sono aumentate perché le persone non trovano risposte adeguate sul territorio».
Il dato che allarma ancora di più è quello di genere: il 70% dei medici colpiti è donna.
«È un problema di cultura, di informazione ed educazione sanitaria. Si colpisce la donna perché è l’elemento più debole, è più facile l’aggressione ad un medico donna. La donna non è tutelata, le mie colleghe della guardia notturna non si sentono sicure».
Come si sensibilizza il cittadino al fenomeno?
«Solo attraverso una corretta informazione soprattutto nelle zone più a rischio, dove ci sono tantissime difficoltà. Lì lo Stato è assente: quando arriviamo noi, veniamo attaccati perché rappresentiamo lo Stato. C’è un sentimento di disprezzo nei confronti delle istituzioni e di chi le rappresenta, e una svalutazione delle competenze professionali. Andiamo ad aiutare ma siamo visti come un nemico che non aiuta abbastanza».